La Stampa, 3 luglio 2023
Se Shakespeare è donna
La giornalista americana Elizabeth Winkler sta sollevando un polverone oltremanica per il suo saggio Shakespeare was a woman and other heresies (Simon & Schuster), ovvero “Shakespeare era una donna e altre eresie”, che rimette in fila tutte le teorie alternative sull’inventore di Romeo e Giulietta. «Il primo mistero è come sia diventato uno scrittore, da cui ne discendono una serie, compreso quello sulla sua identità», spiega l’autrice specializzatasi in letteratura inglese a Stanford in questa intervista durante il suo viaggio in Italia per comprendere come mai nelle opere del Bardo ci siano tanti riferimenti precisi a Venezia, Padova e Firenze.
Pensa davvero che Shakespeare fosse una donna?
«Nel libro mi limito a esplorare le varie teorie e a lottare contro i problemi, le lacune e l’incoerenza della versione tradizionale. Proprio per questo non posso non notare che la qualità femminile o femminista delle commedie sia una questione importante e senza risposta. La studiosa Juliet Dusinberre ha scritto che il dramma di Shakespeare "merita il nome femminista", poiché nelle sue opere "c’è la lotta delle donne per essere umane in un mondo che le dichiara solo femmine"».
Che spiegazione si può dare a questa sensibilità particolare?
«La studiosa Anne Barton concorda sul fatto che "la comprensione quasi inquietante di Shakespeare è una delle caratteristiche distintive della sua commedia, al contrario di quella della maggior parte dei suoi contemporanei". C’è una lunga storia di donne che si nascondono sotto nomi maschili o contribuiscono a lavori attribuiti solo agli uomini. Data la natura collaborativa del teatro, è possibile che una di loro abbia dato una mano in questi spettacoli. Non a caso forse i personaggi femminili nelle opere di Shakespeare non amano altro che travestirsi da uomini».
Uomo o donna, resta il mistero sull’identità: quali sono le possibilità?
«Nel corso degli anni sono stati proposti vari candidati, tra cui il filosofo Francis Bacon, il poeta e spia Christopher Marlowe ed il conte di Oxford Edward de Vere, che viaggiò molto in Italia. Tra le donne si sono fatti i nomi della contessa di Pembroke e mecenate di Mary Sidney e della poetessa di origine italiana nata a Londra Emilia Bassano».
Perché lei non crede semplicemente a William Shakespeare?
«Ci sono molti problemi rispetto alla tradizionale attribuzione delle opere a un uomo senza precedenti di istruzione, di letture o di viaggi. Non ha lasciato lettere a riguardo, non è mai stato pagato per scrivere e le sue opere hanno poco legame con la sua vita. Quando morì nel 1616 non menzionò nulla nel suo testamento e nessuno scrittore lo riconobbe come il poeta. Pensare che abbia scritto davvero quelle opere invita a credere nei miracoli o a non credere nell’"uomo di Stratford", come dice lo studioso J. Dover Wilson».
La mitizzazione di Shakespeare è servita anche per riempire il vuoto lasciato dall’impero e dalla chiesa?
«Nel corso del XVIII e XIX secolo in Gran Bretagna il Bardo divenne come un dio laico, una figura che univa cattolici e protestanti incoraggiando l’orgoglio nazionale e i pellegrini accorrevano per adorarlo a Stratford-upon-Avon, che divenne una specie di Betlemme inglese. Questo periodo di fervore religioso, noto come "bardolatria", coincise con l’imperialismo britannico. Shakespeare divenne come una prova della superiorità culturale e del diritto a governare della Gran Bretagna. Nel 1840 il critico Thomas Carlyle lo definì "la chiesa universale del futuro e di tutti i tempi", un "segno di raduno" che avrebbe unito tutte le persone di lingua inglese del mondo».
Il punto centrale per lei non è solo l’autore, ma tutte le credenze cresciutegli attorno?
«Sono interessata a come un miracolo sia stato sostenuto nell’università moderna da professori che dovrebbero insegnare il pensiero critico. Il mio libro esamina le forze culturali, politiche, economiche, psicologiche e istituzionali che appoggiano questa convinzione. Solo che per alcuni mettere in discussione la paternità delle opere del Bardo è un tabù. Sir Stanley Wells per esempio ha dichiarato che "è immorale mettere in discussione la storia e togliere il merito a William Shakespeare di Stratford-upon-Avon". Eppure l’indagine critica dovrebbe essere alla base della disciplina storica».
Perché il suo libro viene tanto criticato in Inghilterra?
«Ho sfidato una lunga tradizione, e le persone reagiscono fortemente a questo. È inquietante e scomodo. Ho sfidato anche i singoli esperti di Shakespeare, le cui carriere e reputazioni sono basate su questa convinzione. Stanno naturalmente cercando di difendere la loro fede e il loro lavoro, ma i loro tentativi hanno messo in luce la debolezza della loro posizione».
Dipende anche dal fatto che lei ha un punto di vista americano?
«Probabilmente è più facile per un americano esaminare criticamente la storia di Shakespeare, non avendo il coinvolgimento sentimentale e nazionalistico di molti inglesi. Tanti degli scrittori e dei ricercatori che hanno dubitato della sua figura erano stranieri, tra cui Henry James, Mark Twain, Walt Whitman e Vladimir Nabokov. In ogni caso, alcuni erano inglesi per cui credo che la faccenda abbia più a che fare con la capacità di pensiero critico che con la nazionalità».
Sta lavorando a un altro libro?
«C’è un nuovo lavoro in vista, ma prima ho diversi articoli da finire sul rapporto tra Shakespeare e l’Italia e sul perché tanti giudici della Corte suprema americana hanno dubitato di lui».
Qual è il suo libro di Shakespeare preferito?
«Difficile scegliere, ma forse Sogno di una notte di mezza estate».
E il suo classico in generale?
«Ho riscoperto un amore per Le metamorfosi di Ovidio, che ha molto influenzato Shakespeare».
E tra i contemporanei?
«Adoro i romanzi di Elena Ferrante, non a caso un altro autore misterioso».