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 2023  luglio 03 Lunedì calendario

Tullio Solenghi si racconta

“Beccàto, il mio Noschese da strapazzo”. La professoressa di chimica aveva voce stridula e gesti da marionetta, impossibile non prenderla in giro: ma quel giorno, i compagni di classe non ridevano. Molto strano.
Tullio riprese a scimmiottarla con più impegno: niente da fare, tutti seri. Poi sentì qualcuno che da dietro gli batteva una mano sulla spalla. “Solenghi, venga con me dal preside”. Tre giorni di sospensione.
«Così è iniziata la mia carriera da imitatore. Ma mi esibivo anche con don Giorgio, il mio Pigmalione, una specie di don Milani, nelle gite della parrocchia al Santuario della Guardia: io padrone del microfono, in fondo al pullman». Tullio Solenghi (Genova, 1948), nato nel paesino di Sant’Ilario. «In casa, come succedeva allora. Cresciuto in un piccolo paradiso, dove tutti conoscevano tutti. Scendere a Nervi, per frequentare le scuole medie, fu come attraversare l’Oceano Atlantico».
A Sant’Ilario, da piccolo, conobbe Gilberto Govi. Un segno?
«Chissà. Lui era andato a pranzo al ristorante Lillo, io e altri bambini — con me c’era Egle, la nipote di Bartolomeo “Maciste” Pagano — corremmo a conoscere questo nonnino che alla fine degli anni Cinquanta interpretava delle scenette a Carosello, e noi si poteva restare svegli fino alle nove di sera a guardare la tv. Fu molto gentile: insieme al suo autografo mi regalò un piccolo ritratto: che peccato, l’ho perduto».
Giovane allievo del Teatro Stabile di Genova.
«Avevo 17 anni, uscì il bando e feci domanda: mi presentai coi primi versi di “A Silvia”, recitati in 5 dialetti differenti. Il grande Luigi Squarzina scoppiò a ridere: pensavo mi prendesse in giro, invece. Due anni di scuola d’arte drammatica, e 7 stagioni di Stabile.
Ma mi sembrava di fare l’impiegato, piccole parti senza riuscire a esprimermi e quando speravo in qualcosa di meglio ecco che qualcuno — arrivato da Roma — mi soffiava il posto. Vivevo in un piccolo appartamento di via Carrara con mia moglie, Laura: decisi di scrivere un pezzo di cabaret, lo recitai in casa davanti ad amici. Erano entusiasti. E così andai a Milano, in cerca di fortuna.
Lasciando la mia parte di allora — ero il fratello di Mattia Pascal nella riduzione di Tullio Kezich, con Giorgio Albertazzi — a un amico, un certo Massimo Lopez. Però…».
Però?
«In quegli anni ho avuto il privilegio di lavorare con Tino Buazzelli, Eros Pagni, Alberto Lionello, Lina Volonghi: senza perdermi una loro virgola. Una fortuna incalcolabile».
A Milano, provino al mitico Derby: il Tempio del cabaret.
«Convinco Gianni Bongiovanni, lo zio di Diego Abatantuono: peròdevo aspettare 3 mesi. Così finisco al Refettorio di via San Maurilio, accetto l’offerta del manager Silvio Scarfò che mi dice: “Lavorerai insieme a un altro genovese. Si chiama Beppe Grillo”. Io facevo un tempo, lui l’altro. E la sera, Beppe sospirava: “Belìn Tullio, abbiamo fatto ridere almeno il 70% del pubblico: due spettatori su tre”.
Ogni tanto ci sentiamo: ma non parliamo mai di politica, solo di quei tempi».
Adesso ci vive lui, a Sant’Ilario.
«Il mio paese. Trasformato in un letargo per ricchi».
In quel locale milanese vi scoprì Pippo Baudo.
«Finisco in tv a fare Luna Park : con Massimo Troisi e la Smorfia, Enzo Beruschi, Heather Parisi. Ma ero un tipo irrequieto, insoddisfatto.
Accetto di fare una trasmissione suRadio2 dagli studi di Genova:Helzapoppin , col mitico Arnaldo Bagnasco. E propongo di far venire due amici: Massimo Lopez, Anna Marchesini».
Il Trio. La storia della televisione italiana. Tre edizioni del Festival di Sanremo. Quasi 15 milioni di spettatori per la prima puntata dei Promessi Sposi.
«Sfogo totale: creatività, divertimento. Un successo incredibile. Prego, non parliamodella mia imitazione dell’Ayatollah Khomeini (le reazioni internazionali, le minacce di morte, ndr ).I momenti più belli li ho vissuti interpretando Renzo Tramaglino ma anche l’Innominato, e il fratacchione del convento».
Quanto le manca la sua amica Anna Marchesini?
«Amica è troppo poco. Una sorella.
Una parte di me. Siamo stati insieme per 12 anni, ogni giorno almeno una telefonata parlando quel che avremmo potuto fare insieme. La sua ironia, le mille espressioni. Straordinaria. L’attrice più grande della sua generazione».
Qualche rimpianto?
«A parte le persone care che non ci sono più? Forse avremmo dovuto fare cinema, ma erano anni di crisi e nessuno voleva investire.
Personalmente però, non potevo immaginare di meglio: dopo tanto successo ho fatto un salto di trent’anni e tornare a riempire i teatri — a Genova, col mio Gilberto Govi(un lavoro di trucco impressionante, ndr ) eI Maneggi per maritare una figliainsieme Elisabetta Pozzi — è stato entusiasmante. No, non potevo chiedere di più».
È un genoano di quelli veri.
«Genovese, inevitabilmente rossoblù: dai tempi di Gigi Meroni. Con grandi amici come Collovati, Eranio, Gasperini. Sono contento del ritorno in A ma, annemmu cianin: calma ragazzi, ne ho viste troppe in tutti questi anni, pensiamo a sistemarci un passo alla volta».
Vegetariano.
«Mi incammino verso il veganesimo, perché non mi va di uccidere degli esseri viventi per mangiare. Un luminare come il professor Veronesi ha smantellato l’alibi: non abbiamo bisogno della carne per vivere. E non mi va di discriminare tra animali di serie A e serie B: coccolo il cane che fa parte della mia famiglia, mi mobilito per salvare la balena spiaggiata, però macello il maiale o faccio una mattanza di tonni. Mia moglie Laura, chef vegana, mi ha aperto un mondo».
È felice?
«Ho sempre considerato il mio mestiere — il più bello del mondo — come qualcosa di non fondamentale, rispetto alla vita.
Parallelo. È stata la vita privata, a darmi la carica: con Laura ci siamo conosciuti in via Balbi all’università, facoltà di Filosofia (un solo esame insieme, Storia delle religioni) e siamo insieme dal 1972.
Una delle coppie più inossidabili nel mondo dello spettacolo. Due figlie, i nipoti. E mi scappa da ridere, ripensando a quando in fondo al pullman di don Giorgio facevo le imitazioni di Peppino Di Capri e Ruggero Orlando: “Qui Nuova York…”. Aveva ragione la professoressa: un Noschese da strapazzo. Felice».