la Repubblica, 3 luglio 2023
I soldati italiani internati nei lager per un no a Hitler
L’ho scoperto per caso, a vent’anni, frugando in un suo cassetto alla ricerca di qualche documento. Da un pacchetto chiuso con cura è spuntato quella specie di passaporto rosa, consunto, con l’aquila che sovrasta il simbolo della croce uncinata. Dentro, la foto di mio padre in divisa da militare giovanissimo e un altro bel timbro delle SS. Non sapevo cosa pensare… «Era il libretto di riconoscimento del campo». «Quale campo?». «Sono stato internato due anni in un lager in Germania, praticamente lavori forzati. Storia chiusa. È per questo che non posso vedere le rape». È finita lì. Pochi accenni nel resto della sua vita e – a un certo punto – una richiesta di risarcimento allo Stato tedesco. Un piccolo episodio della rimozione collettiva di una sciagura che gli storici considerano unica nella Seconda guerra mondiale. Quella dei militari italiani rinchiusi nei campi di concentramento in Germania dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Erano quasi seicentocinquantamila. Ci sono rimasti due anni. Chiunque, per qualsiasi motivo, entri in contatto con questa cifra resta senza fiato: 650 mila prigionieri senza diritti, un’epopea tragica, e non ne sapevo nulla?
A metà luglio partirà da Dresda una piccola carovana per ricordarli, ottant’anni dopo. Nasce da un’idea di Andrea Satta (e del suo gruppo, i Têtes de Bois) che ha scritto un libro e uno spettacolo per fare i conti con quel che ricorda dei racconti del padre su quella terribile stagione della sua vita. Si tradurrà in un viaggio in bicicletta sul percorso che, per mesi, quel popolo di ragazzi affamati e spauriti fece per tornare a casa. Un omaggio postumo sostenuto da tante istituzioni e tante associazioni importanti per la nostra memoria, dall’Anpi (Associazione Nazionale Partigiani) all’Archivio Storico della Resistenza, fino alla Fiab. Incontrerà le autorità di Lagenfeld (il lager del padre di Satta), sarà ricevuta a Dachau, e poi giù per l’Austria a Mittenwald (dove a decine di migliaia si ritrovarono), in Italia nei campi di Bolzano e Fossoli ma anche al cimitero germanico della Futa (superfluo spiegare perché), fino alla stazione di San Lorenzo a Roma. Dove, alla fine, in tanti arrivarono.
Ed è un omaggio postumo a un grande capitolo di “Resistenza non armata”, per mille motivi lasciata cadere nell’oblio, con la grande eccezione di Carlo Azeglio Ciampi che da presidente della Repubblica riportò in primo piano l’eccidio di Cefalonia. Alcuni numeri importanti per capire. Dopo l’8 settembre 1943 furono catturati dai tedeschi in Europa oltre un milione di soldati italiani. Tredicimila morirono durante i trasporti coatti. Tutti furono pressati ad entrare nell’esercito tedesco: lo fecero solo in 94 mila, quasi tutti ex camicie nere. Degli oltre 700 mila deportati, malgrado le pressioni naziste o della neonata Repubblica Sociale, in due anni solo centomila decisero di uscire dai lager ed arruolarsi. Di fatto, un intero esercito di oltre 600 mila giovani vissuti nel ventennio disse di no al nazifascismo: per convinzione, per fedeltà alla monarchia, per farla finita con la guerra e i suoi orrori, perché non ne potevano più. Comunque dissero di no, e scelsero di restare nei lager a convivere con la fame e turni di lavoro disumani. Morirono in quasi cinquantamila, un altro numero agghiacciante e dimenticato.
Deportati senza diritti. Ancora adesso identificati come Imi, Internati militari italiani. Sigla che decise Hitler in persona: non prigionieri ma traditori, fuori da qualunque convenzione internazionale e dalla tutela della Croce Rossa. Nelle centinaia di campi sparsi per la Germania hanno sperimentato ogni genere di privazioni e soprattutto la fame. Dai non molti racconti si capisce che era prassi comune cercare bucce di patate e rape nelle immondizie, o cacciare piccoli animali come topi, rane e lumache. E lavoravano allo sfinimento – spesso attuando piccoli sabotaggi passivi – nell’apparato industriale bellico del Reich. Quasi come schiavi, gli “schiavi di Hitler”.
La loro “resistenza silenziosa” si concluse con mesi di viaggio – a piedi e con ogni mezzo scampato alla distruzione – per tornare a casa attraversando l’Europa ferita. «Faremo quella strada del ritorno dal campo di concentramento, circa 1600 chilometri, in bicicletta – spiega Andrea Satta. Sarà il più possibile attigua alla linea ferroviaria e quindi al treno che riportò mio padre a casa. Papà si salvò con la complicità di una fisarmonica che sapeva suonare, viaggiò a cavallo dei respingenti di un treno merci per molti giorni e quel viaggio dopo tanto orrore fu il ritorno alla vita».
Se si considera il loro numero, praticamente ogni famiglia italiana ha un “Imi” tra i suoi parenti. Ma spesso nemmeno lo sa. Una sindrome da Napoli Milionaria!, la terribile e geniale opera di Eduardo De Filippo su un reduce che cerca di raccontare la sua prigionia e, alla fine, sceglie il silenzio.
Il giovane soldato schedato in quel “passaporto rosa” riuscì a tornare solo il 23 ottobre del 1945 (risulta dai documenti dell’esercito), cinque anni e quattro mesi dopo essere stato imbarcato per l’Albania. Uno dei suoi fratelli, il più piccolo di una numerosa famiglia, lo ricorda così: «Nel paese si sparse la voce che era arrivato. Gli corsi incontro in strada. Era partito il mio fratellone grande e forte, stava tornando un’ombra».