la Repubblica, 3 luglio 2023
La holding Del Vecchio vuole scalare Generali
Giovanni Pons per la Repubblica
Si riaprono i giochi per il controllo delle Generali di Trieste, la più grande compagnia assicurativa del paese con oltre 500 miliardi di attività in gestione. La novità arriva dall’Ivass, l’autorità che vigila sul mercato assicurativo, che venerdì 30 ha autorizzato la Delfin, la holding finanziaria della famiglia Del Vecchio, a salire oltre il 10% del capitale di Generali. La richiesta era stata presentata senza squilli di tromba lo scorso 17 aprile perché - avendo già il 9,8% del capitale di Generali - Delfin aveva “involontariamente” superato la soglia del 10% per effetto del riacquisto di azioni proprie da parte della compagnia triestina. Un fatto tecnico, che però ha indotto Francesco Milleri, il manager che guida la cassaforte posseduta dagli eredi di Leonardo Del Vecchio (deceduto nel maggio 2022), a cogliere la palla al balzo e chiedere alla Vigilanza di poter restare sopra il 10% ed eventualmente salire oltre. Milleri poteva vendere un piccolo pacchetto di azioni e tornare sotto il 10%, ma non l’ha fatto. Ha preferito puntare in alto, ottenendo disco verde. «Ivass autorizza Delfin a detenere una partecipazione qualificata superiore al 10% del capitale sociale di Generali», è scritto nella delibera 54 dell’Ivass.
Che cosa significa tutto ciò per le battaglie finanziarie che fin dai tempi di Enrico Cuccia si combattono intorno alla galassia Mediobanca- Generali? Vuol dire che a poco più di un anno dal duro scontro tra i soci andato in scena nell’assemblea 2022 della compagnia, i giochi possono riaprirsi. Un anno fa una compagine di azionisti composta da Leonardo Del Vecchio, Francesco Gaetano Caltagirone, la famiglia Benetton, la Fondazione Crt e altri piccoli imprenditori aveva sfidato apertamente la lista promossa dal consiglio di amministrazione e sostenuta da Mediobanca, primo socio di Generali con il 13%. La compagine degli sfidanti perse, raccogliendo quasi il 30% del capitale, mentre la lista del consiglio vinse con oltre il 40%, grazie al sostegno di tutti gli investitori di mercato. Così l’amministratore delegato Philippe Donnet è stato riconfermato nel suo ruolo per altri tre anni.
Adesso però le cose potrebbero cambiare: se Delfin, forte del nulla osta dell’Ivass, nei prossimi mesi incrementasse la sua partecipazione fin quasi al 20%, con un notevole esborso di denaro, va detto, gli equilibri potrebbero ribaltarsi alla prossima conta delle azioni. Tuttavia un primo test su cosa potrà accadere in futuro arriverà a breve e avrà come teatro il rinnovo dei vertici di Mediobanca, in calendario a ottobre. Le due partite sono intrecciate perché Piazzetta Cuccia ha in pancia il 13% di Generali e dunque controllare a monte significa avere un grande potere anche a valle. Del Vecchio l’aveva capito bene ed essendo azionista storico del Leone di Trieste nel 2019 aveva cominciato a comprare azioni Mediobanca, anche perché il socio storico Unicredit era uscito lasciando la banca d’affari in balia degli eventi. Sulla scalata di Del Vecchio a Mediobanca, prima fino al 10% e poi al 20% del capitale, hanno influito anche aspetti personali. In particolare la sua irritazione nei confronti del management della banca per aver ostacolato il suo piano di investire 500 milioni nello Ieo (Istituto Europeo di Oncologia, fondato da Umberto Veronesi) per svilupparlo ancora di più come polo d’eccellenza a livello internazionale.
Fatto sta che, comprando il 20% di Mediobanca, Del Vecchio ha issato una nuova bandiera italiana nell’azionariato della banca d’affari che stava perdendo i pezzi (anche il francese Bolloré ne è uscito dopo venti anni). E allo stesso tempo ha eretto un muro di protezione sulle Generali, impedendo che qualche grande gruppo assicurativo o finanziario potesse scalare la compagnia passando dalle meno costose porte di Mediobanca.
Ora però la partita si scalda ancor di più. Secondo i dettami della Bce quel 20% di Delfin non può trasformarsi in una quota di controllo e di gestione di Mediobanca. Una banca può essere controllata solo da un soggetto vigilato dalla Banca d’Italia e nessun gruppo imprenditoriale singolarmente può controllare la maggioranza dei voti della lista vincente in assemblea. Ecco che allora, in vista dell’appuntamento di ottobre per determinare la guida futura di Mediobanca, sono cominciate le manovre finanziarie. Caltagirone ha comprato azioni ed è salito poco sotto il 10%, alcuni rumor dicono che anche i Benetton, come avevano già fatto in Generali, abbiano messo insieme un pacchetto di azioni Mediobanca vicino al 5%. E poi altri imprenditori, come Danilo Iervolino, hanno spostato i loro interessi su Piazzetta Cuccia, in una sorta di manovra a tenaglia. In pratica c’è un gruppo di soci che potrebbe contare su un 40% del capitale e che ambirebbe ad avere il controllo del cda. Ma senza un accordo con il cda uscente dovrebbe innescare un’altra battaglia come quella disputata un anno fa in Generali, rischiando una nuova sconfitta. Alberto Nagel, ad di Mediobanca, ha infatti già dimostrato di avere il mercato dalla sua parte, grazie a utili sostanziosi e generosi dividendi.
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Walter Galbiati per la Repubblica
Cambia la stagione politica e si torna all’assalto dell’ultimo fortino della finanza italiana. Perché se anche Mediobanca non è più quel crocevia di partecipazioni che era sotto la gestione di Enrico Cuccia, ha tuttavia in pancia un grande asset che è il 13% di Generali. Controllarla vuol dire mettere le mani su un portafoglio di oltre 500 miliardi di euro.
Si tratta per lo più di obbligazioni a reddito fisso, una componente residua di azioni, ma anche investimenti in Real estate e tanta liquidità. Decidere come muovere questo portafoglio fa gola a molti, soprattutto a chi vuole lanciare progetti industriali, immobiliari o finanziari che hanno bisogno di finanziamenti importanti.
Ora per controllare Generali ci sono tre vie: o si scala Mediobanca o si scala Generali o, grazie al vento politico che è cambiato, si lavora per ottenere alcune modifiche di legge che impediscano il voto di lista o il voto dei titoli presi a prestito.
Scalare Mediobanca
Scalare la prima è una via più difficile e ardua. Perché per controllare una banca serve innanzitutto il via libera di Banca d’Italia e della Banca centrale europea e chi la controlla deve essere una istituzione finanziaria riconosciuta. Cioè non può essere una holding di partecipazioni normale, né tanto meno un’azienda qualsiasi. Nessuno può alzarsi e decidere di fare il banchiere senza il via libera delle autorità di vigilanza.
Il primo vero malcontento nei confronti della gestione di Mediobanca da parte dell’attuale amministratore delegato Alberto Nagel si è concretizzato tre anni fa, ad ottobre quando si doveva votare il rinnovo del consiglio di amministrazione. In assemblea si presentava per la prima volta Leonardo Del Vecchio con la sua Delfin con una partecipazioni pari al 10% del capitale. E non votò la lista ufficiale, quella del consiglio di amministrazione, presentata dallo stesso Nagel, ma la lista di Assogestioni.
Vinse comunque Nagel che fu rieletto con l’appoggio del mercato e il 45% del capitale, ma fu un primo segnale che ha poi dato vita al rastrellamento sul mercato di titoli Mediobanca e alla costituzione di uno zoccolo duro di azionisti ostili all’attuale management che colleziona circa il 40% del capitale.
La Delfin, oggi partecipata dai figli di Del Vecchio e guidata da Francesco Milleri per volontà di Del Vecchio stesso, possiede il 20% di Mediobanca, raggiunto con l’assenso e il monito della Banca centrale europea a mantenere solo un ruolo di investitore finanziario. Alle spalle di Delfin, l’imprenditore Francesco Gaetano Caltagirone possiede il 10%, la famiglia Benetton secondo rumors si attesterebbe sotto il 5%, con un gruppetto di altri imprenditori, tra cui Danilo Iervolino, accreditati un altro 5%.
La prossima assemblea di Mediobanca si terrà come sempre a ottobre e dovrà rieleggere il consiglio di amministrazione. Dato per scontato che il cda presenterà la propria lista, eventuali scalatori dovranno convincere un’istituzione finanziaria riconosciuta a presentare una lista alternativa in grado di ottenere prima il consenso della Bce e poi di raccogliere più voti della lista del cda.
Scalare Generali
Una via più semplice, avendo le risorse, è quella di scalare direttamente Generali. E in questo solco si colloca l’ultima mossa di Milleri, ovvero la richiesta all’Ivass, l’autorità che vigila sulle assicurazioni, di salire oltre il 10 nel capitale dell’assicurazione di Trieste.
Una mossa per evitare quanto è andato in scena lo scorso anno ad aprile, quando nella prima grandebattaglia per il controllo di Generali, ha vinto nuovamente Mediobanca portando alla rielezione di Philippe Donnet. Dopo mesi infuocati di raccolta titoli e dichiarazioni, in assemblea si era presentato il 70% del capitale. Nagel grazie all’appoggio del mercato e a un’abile raccolta di titoli in prestito ha coalizzato il 40% del capitale di Generali, mentre alla cordata di Caltagirone e Milleri è andato poco più del 29%, ottenuto con il 10% del primo e poco più del 6% del secondo, l’appoggio del 5% dei Benetton e il restante supporto proveniente dalla Cassa di risparmio di Torino e da altri piccoli imprenditori. E’ chiaro che se Delfin salisse fino al 20%, come è autorizzata a fare (ci vorrebbero 2,8 miliardi per rastrellare il 10%), potrebbero cambiare gli equilibri. E in una convocazione straordinaria, con un colpo di mano, si potrebbe arrivare a destituire l’attuale consiglio di amministrazione.
Agire per legge
La terza via per arrivare al controllo, è quella di cambiare le norme per la presentazione delle liste del cda, sia in Mediobanca che in Generali, o di vietare che i titoli presi in prestito possano essere utilizzati per votare la propria lista.
Si tratta di due proposte di legge che Caltagirone ha caldeggiato più volte e ha cercato altrettante volte di far passare con qualche emendamento. Ad aprile dello scorso anno però al governo c’era Mario Draghi e non era facile avallare un provvedimento che andasse contro il mercato, perché la lista del cda è vista come una lista autonoma, che favorisce gli investitori istituzionali e non subisce gli indirizzi dei soci maggiori. Il contrario di quello che invece auspicano azionisti come Delfin e Caltagirone, ovvero far valere le proprie decisioni in virtù del loro pacchetto azionario.
Ora però il vento è cambiato e l’obiettivo di Caltagirone di creare «una grande multinazionale – sono parole sue - con sovranità italiana » può trovare molto più ascolto a Palazzo Chigi. Non è un caso che Caltagirone sia stato convocato in audizione in Senato per il Ddl Capitali, dove ha nuovamente attaccato la lista del cda, accusando l’attuale sistema di perpetuare l’assetto di potere e di favorire il conflitto di interessi con i grandi fondi internazionali.