il Fatto Quotidiano, 3 luglio 2023
Autonomia, dopo 60 audizioni è chiaro: il ddl Calderoli va solo buttato
Una sessantina di audizioni in quasi tre mesi: Banca d’Italia, Ufficio parlamentare di bilancio, Confindustria, Abi, associazioni ed esperti di ogni genere. Il risultato, a una lettura spassionata, è che il ddl Caderoli sull’autonomia differenziata va buttato: un testo confuso, vago su punti fondamentali, che ammutolisce il Parlamento, disegnato sui desiderata di Luca Zaia e soci, che approfondirà i divari territoriali interni e rischia di ridurre lo Stato centrale alle dimensioni di un condominio. Ovviamente quella legge non sarà buttata affatto perché gli equilibri interni alla Lega non possono reggere alla rinuncia alla “secessione dei ricchi”. In breve ecco di cosa parliamo e quali sono i punti più controversi.
La legge.
Arrivato in Senato il 23 marzo, ora l’iter del ddl Calderoli entra nel vivo. Si tratta della legge quadro dentro cui realizzare l’autonomia differenziata su 23 materie (e 500 funzioni) – robetta tipo la scuola – prevista dalla pessima riforma del Titolo V della Costituzione voluta dal centrosinistra nel 2001. In sostanza il disegno di legge definisce la procedura delle intese (almeno decennali) tra governo e giunte regionali sulla maggiore autonomia. Ovviamente il punto sono i soldi: una commissione paritetica Stato-Regione deciderà quanta compartecipazione al gettito toccherà alle Regioni ad autonomia differenziata (Rad) per gestire le materie devolute. Una volta definito tutto, il Parlamento approva o respinge a maggioranza assoluta senza poter fare modifiche. Il ddl prevede che la cosa avvenga “senza nuovi o maggiori oneri” finanziari, ma lo Stato non avrà poteri sostitutivi se le cose vanno male: il controllo sugli effetti delle intese è affidato sempre alla commissione paritetica Stato-Regione. Il “fondo perequativo” per i territori più poveri, pur previsto dalla Carta, è solo un’intenzione: il ddl Calderoli dice solo che bisogna fare un fondo unico coi soldi che già ci sono e poi parla di “procedure” per un uso “più razionale, efficace ed efficiente delle risorse” (ovvero tagli).
I Lep/1.
Sono i livelli essenziali delle prestazioni, quelle che lo Stato deve garantire a tutti, citati nel Titolo V del 2001: il governo nell’ultima manovra ne ha affidato la definizione entro sei mesi, appena scaduti, a una commissione di 61 membri presieduta da Sabino Cassese in cui scarseggiano gli economisti, ma non gli esperti voluti da Zaia. La commissione Clep (sic) si avvale del supporto della Commissione tecnica sui fabbisogni standard, ora presieduta da Elena D’Orlando, anch’essa nella delegazione veneta per l’autonomia. Le materie oggetto di Lep possono essere devolute solo dopo la loro definizione e il loro finanziamento, ma attenzione: questo, scrive Bankitalia, “non implica che le prestazioni individuate come essenziali siano adeguatamente finanziate ed effettivamente erogate”. E ancora: “Senza risorse aggiuntive, potrebbe risultare difficile fornire gli stessi Lep in regioni storicamente a bassa spesa, anche per la mancanza di un meccanismo perequativo” (Commissione Ue).
I Lep/2.
L’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) ha provato a calcolare il costo di un solo Lep, l’aumento del “tempo pieno” a scuola, assente soprattutto al Sud: garantirlo a tutti farebbe aumentare del 30% la spesa in stipendi (in soldi, 4 miliardi a non contare tutte le altre spese), garantirlo a metà delle classi del 7% (1 miliardo). Quale obiettivo darsi è una scelta supremamente politica, dunque sorprende – come ha notato l’economista Gianfranco Viesti – il ruolo in commedia dei membri della commissione Clep, “a partire dal presidente Cassese e dal governatore di Bankitalia” che “non possono non sapere che la determinazione dei Lep non può che essere prerogativa del Parlamento”. E invece le Camere non hanno alcuna voce in capitolo: man mano che i Lep verranno individuati saranno approvati via Dpcm, col Parlamento esautorato.
Solo al Nord.
Sempre l’Upb ha calcolato quanta compartecipazione dei principali tributi (Irpef, Ires e Iva) servirebbe a ogni Regione per gestire il solo comparto istruzione: si va “dall’11% della Lombardia al 40% della Calabria, col resto del Sud tutto sopra il 27%”. In sostanza, “vi sono Regioni per le quali la capienza del gettito è limitata e tale da rappresentare un ostacolo a eventuali richieste di autonomia”. Tradotto: il Mezzogiorno l’autonomia non se la può permettere, questo ddl serve solo al Nord.
I soldi.
È pacifico che l’obiettivo degli “autonomisti” sia tenersi più soldi possibile: il 90% del gettito prodotto in Regione secondo il Consiglio regionale del Veneto. Il testo, come detto, prevede che insieme ai nuovi poteri alle Regioni vada una compartecipazione al gettito di uno o più tributi. Problema: la percentuale è fissa o si verifica che il gettito copra solo il fabbisogno? Il ddl non lo dice e, di fatto, affida la cosa alle intese con le Regioni. Calderoli e Zaia sono ovviamente a favore della percentuale fissa per un motivo semplice: “Con l’andare del tempo le Regioni autonome che dovessero registrare una più pronunciata dinamica delle basi imponibili disporrebbero di risorse eccedenti rispetto al fabbisogno per le funzioni decentrate” (Banca d’Italia). È esattamente il caso di Lombardia, Veneto e Emilia Romagna, che nel 2017 hanno chiesto tra 15 e 23 nuove competenze allo Stato: se l’autonomia gli fosse stata concessa subito, ha calcolato Svimez, dal 2018 le tre Regioni si ritroverebbero un surplus di 9,5 miliardi tenendo conto solo di Iperf e Iva.
Conti pubblici.
Le risorse in eccesso lasciate alle Regioni autonome (ricche) sono sottratte al resto d’Italia, il che sarebbe un grosso problema: se le Rad spendessero quei soldi in più il deficit andrebbe ridotto in altri settori o territori, con “tagli alle prestazioni negli ambiti di spesa non trasferiti alle Rad o inasprimenti del prelievo sui tributi erariali (che peraltro incrementerebbero ulteriormente anche il gettito disponibile per le Regioni autonome)” (Bankitalia). Se gli si impedisse di spenderle per tenere il deficit sotto controllo, quelle risorse rimarrebbero comunque bloccate nei bilanci regionali finendo per avere un effetto restrittivo (austero) sul bilancio pubblico.
Stato minimo.
Così com’è l’autonomia “comporta la devoluzione di una quota di gettito erariale potenzialmente significativa e, contestualmente, la perdita di controllo da parte del governo centrale di settori rilevanti della spesa pubblica (Banca d’Italia): questo “rischia di mettere a repentaglio la capacità del governo di indirizzare la spesa pubblica” (Commissione Ue) e “potrebbe risultare indebolita la capacità del governo di rispondere in maniera tempestiva a necessità urgenti” (Upb).
Aumento dei costi.
Lo Stato trasferisce poteri, soldi e personale alle Regione autonome, solo che “non è detto che con le risorse umane rimanenti lo Stato sia in grado di svolgere le stesse funzioni attualmente assicurate nelle Regioni che non richiedono maggiore autonomia”. Insomma o meno servizi o “maggiori oneri per il bilancio pubblico”: “La spesa complessiva potrebbe risentire della frammentazione nell’erogazione dei servizi pubblici, oltre che di maggiori costi dovuti a diseconomie di scala” (Upb).
Arlecchino.
Come sarà l’Italia differenziata? “Non si può escludere uno scenario fortemente frammentato con un significativo numero di Regioni che acquisiscono funzioni differenti, con diversa composizione dei Lep e diverso peso finanziario” (Upb). “Uno Stato Arlecchino senza pari nel mondo”, secondo il professor Viesti.
Imprese.
Una critica diffusa è che “una cornice normativa più complessa e disomogenea sul territorio rischia di distorcere le scelte delle imprese” (Banca d’Italia), di avere cioè “effetti distorsivi sulla localizzazione e sulla scelta degli investimenti delle imprese, aggravando gli esistenti divari territoriali o creandone di nuovi” (Upb).
Settori.
Molte materie, ha spiegato Confindustria, andrebbero escluse da quelle trasferibili: il commercio estero, ma anche l’ambiente, “le grandi reti di energia e di comunicazione”. Più in generale, per gli industriali, sarebbe il caso di adottare “un approccio graduale nella selezione delle materie da trasferire”. L’Abi chiede di escludere pure le banche dalla regionalizzazione: “Un vulnus alle prerogative e alle competenze dello Stato nella disciplina dell’attività creditizia”.
Si può dire no.
Le Regioni, secondo la Costituzione, possono chiedere nuovi poteri, “ma non deriva dall’articolo 116 comma 3 alcun obbligo per lo Stato di accettare. Qualunque richiesta può essere respinta, o parzialmente accettata, ovvero accettata integralmente. La scelta va fatta valutando la compatibilità della richiesta col più ampio contesto costituzionale” (il costituzionalista Massimo Villone). È il motivo per cui tutti, a partire da Banca d’Italia, chiedono “un’analisi basata su metodologie condivise, trasparenti e validate dal punto di vista scientifico, per valutare i vantaggi del decentramento rispetto allo status quo”.