il Fatto Quotidiano, 2 luglio 2023
Intervista a Francesco Bruni
Leggera, leggerissima smania di controllo. “Non è che inizia il suo pezzo con ‘Ci riceve nel suo luminoso soggiorno che affaccia sulla scalinata di Trastevere…’?”
Non credo, perché?
“Quasi tutte le interviste partono così, non ne posso più”.
Allora proviamo in un altro modo.
Ore 8:30 del mattino di un giorno di festa. Francesco Bruni ci accoglie in pantofole, caffè e tarallini pugliesi (“attenzione, provocano dipendenza”). Poi cede alla prima sigaretta della giornata, ne seguiranno sicuramente tante altre: le ultime falangi di indice e medio destro, tendenti al giallo, denunciano una certa consuetudine (“Dopo il tumore avevo promesso di smettere”).
Poi si rilassa, non si diverte, ma dosa parole e atteggiamenti; silenzi e ricordi; immagini e vita come se fosse perennemente alle prese con la scrittura di un film.
Di film ne ha scritti molti.
Quasi tutti di successo, alcuni, come Ferie d’agosto, da inserire sotto la dicitura “manifesto di un’epoca” (“Da maggio siamo impegnati con il sequel”), in altri casi ha superato il Rubicone della macchina da presa e ha girato in prima persona un gioiello come Scialla!.
Sempre lui in coppia con Paolo Virzì: da anni rappresentano una sorta di Giusto Pio e Franco Battiato del cinema.
Frequenta il set?
Se non sono il regista, malvolentieri.
Come mai?
Sono una gran rottura di scatole: rivedi la scena infinite volte, non sai dove metterti, le persone ti dicono “levati” o “scansati”.
Neanche all’inizio della carriera?
Al massimo un giorno, ho derogato solo per Ferie d’agosto: mia moglie ci recitava (Raffaella Lebboroni), così tutta la famiglia si era trasferita a Ventotene.
Conscio di partecipare alla nascita di un capolavoro?
Non ne avevo minimamente idea e neanche che sarebbe stato così attuale dopo 25 anni; pensare che siamo partiti da un sentimento irriverente nei confronti dei nostri simili.
Cioè?
Reduci da vacanze pauperistiche a Ginostra, terribili, senza acqua né luce, seduti su scogli appuntiti ci domandavamo ma che cacchio ci facciamo qui? Non è meglio una bella vacanza in Riviera romagnola, con un ombrellone e un piatto di spaghetti? (Pausa) Non ricordo se ero insieme a Paolo (Virzì).
Entrambi labronici, sul citofono di casa ha scritto “RL”, acronimo di Roma-Livorno…
In realtà sono le iniziali di mia moglie; (sorride) non c’è il nome perché quando mio figlio è diventato famoso, e abitava con noi, i fan arrivavano di continuo (il figlio è Arturo Bruni, in arte Side Baby, fondatore del gruppo musicale Dark Polo Gang, guru della musica trap).
Suo figlio è molto famoso…
Sul nostro rapporto mi hanno proposto documentari e un libro, ma quello interessante è lui, non io; quando usciamo lo fermano ogni dieci metri, spesso gli chiedono una foto, e quella foto la scatto io, con lui che cerca di spiegare la situazione al fan: “Guarda che il fotografo è un grande regista”.
E il fan?
Mi guarda con l’espressione del “ma chi te conosce!”; (cambia tono) ora non è sempre così, soprattutto dopo la serie Tutto chiede salvezza.
Benedetta serialità.
Hanno intercettato il pubblico che non andava più al cinema, la famosa casalinga di Voghera; ora se vado dal barbiere, se entro in un bar o dal gommista, mi chiedono quando ci sarà la seconda stagione.
A 60 anni improvvisamente conosciuto. Le piace?
È uno degli obiettivi di questo mestiere: non tanto la popolarità personale, ma poter abbracciare il grande pubblico.
È uno dei maggiori sceneggiatori italiani…
(Accavalla due volte le gambe) Eh…
Un po’ alla Scola…
Scola non va neanche nominato, è Dio.
Il percorso è simile.
E finiscono le similitudini.
Entrambi attingete molto dalla quotidianità, il famoso tram di Monicelli.
Non ho più la macchina e dopo la malattia ho venduto pure il motorino, così spesso prendo i mezzi pubblici, faccio la spesa; cerco di ascoltare le persone.
Insomma, alla Scola.
Alla presentazione di Scialla! comparve all’improvviso, e alla fine della proiezione prese la parola: “Riconosco in Bruni un mio erede”; (resta in silenzio, cambia sguardo) per favore specifichi che ritengo questa frase assolutamente immeritata.
Ha frequentato il Centro sperimentale di cinematografia.
È stato fondamentale, mi ha permesso di staccarmi da Livorno, di confrontarmi con persone simili nelle passioni, di stringere relazioni; se non mi fossi iscritto probabilmente sarei stato un insegnante con la passione del teatro e ogni tanto avrei tentato la strada del cinema in chiave dilettantesca.
Al Centro c’era pure Virzì.
Arrivato tre anni prima, spesso lo andavo a trovare; (sorride) quasi subito aveva iniziato a lavorare come sceneggiatore, si guadagnava bene, e assistevo al suo mutato stile di vita: feste tutte le sere, ragazze bellissime, appartamento da solo a Trastevere.
Non male.
Appunto, l’ho raggiunto.
L’impatto con Roma.
Ho mantenuto intatta la tradizione del provinciale che scruta la città con occhi incantati e guarda tutto con maggiore attenzione, e penso ad Antonioni, a Fellini, a Sorrentino.
Ha vinto 5 David…
(Alza lo sguardo, gira la testa verso destra, sorride e i suoi occhi creano una traiettoria verso una mensola. Sono tutti schierati). All’inizio mi candidavano, ma trovavo davanti a me film come La vita è bella; per sei volte non l’ho preso.
E rosicava.
Un po’ sì: quando entri nella festa grande vuoi arrivare in cima, ma il David non era l’obiettivo finale.
Il provinciale al David.
Impinguato, vestito come mai nella mia vita; e poi ai premi si trasmette un’immagine fasulla del cinema, artefatta, con macchinone, motoscafo, abiti di lusso, red carpet, quando magari si è arrivati all’appuntamento in motorino; (pausa) è un’immagine in qualche modo deleteria.
Perché?
Quando poi andiamo a chiedere i finanziamenti è normale se le persone dicono “che vogliono questi che stanno sui motoscafi o nel lusso!”. Non sanno che è tutto finto.
Però quella finzione è divertente…
Quando andai a Cannes con Calopresti per La seconda volta, mi accesi un sigaro in spiaggia, scalzo, mentre bevevo champagne. Volevo sentirmi come Gatsby. Eppure le scarpe mi stringevano e lo smoking era noleggiato; (pausa) sì, mi sono divertito, basta non ingarellarsi su chi vince, altrimenti sono dolori.
Si è mai ingarellato?
Ho avuto momenti di sconforto e dolore solo quando sono passato alla regia; la sceneggiatura ti tiene protetto sia dal successo sia dall’insuccesso.
Scialla! è stato un successo.
Con Noi 4 è arrivata la battuta d’arresto.
Stato d’animo prima di Scialla!…
Che emozione. Andare a Venezia anche se non in concorso, con la sala strapiena, Nanni Moretti presente, applausi alla fine, critiche positive, premio della sezione, dissi “porca miseria”.
Per anni Moretti è stato il metronomo.
Per me ha rappresentato un punto di riferimento: quando sono arrivato a Roma avevo un’adorazione per lui; è stato colui che, dopo un periodo di stagnazione, ha cambiato le carte in tavola. Conoscevo i suoi film a memoria.
È un maestro?
Non vuole essere né un maestro né un padre cinematografico perché è un uomo sempre in competizione. Lui vuole vincere; (silenzio) dopo Nanni, per una nuova rivoluzione, il cinema ha dovuto aspettare Sorrentino.
Lei è un maestro?
Ho insegnato per dieci anni e credo di aver realizzato un buon lavoro (ed elenca una serie lunghissima di ex allievi oggi sceneggiatori e registi).
La prima regola.
Il film deve essere nella sceneggiatura, bisogna scrivere visivamente, non risultare generici.
Quando è passato alla regia…
Terrorizzato, infatti Scialla! è molto semplice, quasi teatrale: non mi azzardavo a muovere la macchina.
Rossellini non amava gli attori.
Li adoro, sul set sono il mio partner preferito; vengo originariamente dalla recitazione, conosco la sensazione del recitare e mi piace dare le battute durante il casting, offrire la spalla.
Perché non ha continuato come attore?
Sono un cane, e poi ho sempre pensato che la mia strada fosse la scrittura, forse per via degli studi classici.
Studente introspettivo?
(Sorride) Io e Paolo, da giovani, eravamo molto intellettualoidi; a Livorno non frequentavamo la Baracchina Rossa (storico luogo di ritrovo), niente scogli, sempre alle prese con le prove teatrali.
Il bello dei due era lei?
Non abbiamo mai rimorchiato un granché, andava meglio Paolo solo perché ci provava di più. Io restavo fermo, il mio ruolo era quello di granchio da buca; (ride) in una vacanza a Creta, su una spiaggia di nudisti, un giorno tentiamo la strada della chitarra: noi due alle prese con i brani dei Beatles e intorno a noi una ventina di ragazze sognanti.
Almeno lì…
Zero, alla fine grazie e arrivederci.
Amici da sempre.
Da 45 anni.
Bella fortuna.
Ha dell’incredibile: due di Livorno che si trovano e completano, si incoraggiano.
Liti?
Eccome, specialmente quando convivevamo, sembravamo La strana coppia: io Jack Lemmon e lui Walter Matthau. Io ordinato e metodico. Lui casinaro.
Lei è molto metodico.
Sono un grande organizzatore, a livello nevrotico; accanto al telefono avevo piazzato un blocchetto per gli appunti e lui lo riempiva di disegni. Arrivavo, strappavo e buttavo. Il problema è che magari in mezzo c’era pure il numero di una ragazza: “Che fai? Fatti i cazzi tuoi!”.
Le donne sempre presenti.
Avevamo piazzato una lavagnetta in cucina per segnare le nostre conquiste. Dopo un anno eravamo 2 a 1 per lui.
Paolo Virzì regista.
È quanto di più simile al genio. È musicista. È disegnatore. È scrittore. È un vulcano. Quando lavori con lui è come aggrapparsi a una locomotiva in corsa.
Lei?
Dicono che il clima sui miei set sia indimenticabile; ritengo quei momenti come molto fortunati, molto felici e ringrazio di continuo.
È considerato uno dei cinque papà del Montalbano televisivo.
Davvero? Anche qui mi sento un miracolato: quando mi chiamò Carlo Degli Esposti (produttore) mi dette i libri accompagnati dalla frase “mi fido di te”; ma alla fine il mio ruolo è stato solo quello di far rientrare le storie in novanta minuti, perché il materiale letterario di Camilleri era già perfetto, dalla costruzione ai dialoghi.
Questo suo low profile è reale?
È un’educazione che arriva dal mestiere di sceneggiatore, dall’abitudine di servire, di gregario e ho cercato di portarla pure nella regia; non sopporto il culto della personalità, come l’equazione talento uguale cattiveria.
Qual è il suo talento?
L’empatia e l’ascolto.
L’ossessione?
L’ordine (effettivamente la casa, alle 8:30 del mattino, è perfetta. Però la tazzina di caffè è senza piattino. “Mi alzo alle 6”).
Quante idee ha nel cassetto?
Scrivo solo se c’è un progetto ben definito, un contratto e delle scadenze.
Chi è lei?
Non lo so, posso rispondere con i dati anagrafici.
(Ai saluti, sulla porta, l’ultima preoccupazione: “Mi raccomando, nel titolo non mi accosti a Scola”)