il Giornale, 30 giugno 2023
Intervista a Jean Todt
Monsieur Todt si ricorda dove era trent’anni fa?
«Mi lasci pensare...».
Il primo luglio 1993 esordì a Magny Cours alla guida della Ferrari.
«Se non me lo ricordava lei non ci avrei pensato. Il primo luglio ho un altro anniversario da festeggiare».
Ci racconti.
«Quello con Michelle. Stiamo insieme dal 2004».
Auguri e complimenti a Lady Oscar. Era davvero emozionato nella notte in cui a Hollywood sua moglie ha ricevuto la statuetta. Quasi come nel 2000 sul podio di Suzuka con Michael?
«Il bello della vita è che le emozioni sono sempre diverse. Quando assisti al successo di una persona per cui provi amore o affetto è come se avessi vinto tu. E vale lo stesso se quella persona soffre».
Ha fatto la storia anche Michelle, come lei con la Ferrari.
«No Michelle mi ha superato. Abbiamo una nuova campionessa del mondo. Oscar World Champion. Non è stata una cosa da poco. Per la prima volta il trofeo più importante del cinema è stato assegnato a un’attrice asiatica».
Torniamo al luglio di trent’anni fa: arrivando in Ferrari si aspettava di riuscire a vincere così tanto?
«Non me lo sarei mai aspettato. Ricordo qualche amico che mi diceva: non resisterai più di due anni. Sono rimasto fino alla fine di marzo 2009, dopo che avevo tentato di andarmene due volte, nel 2004 quando poi mi nominarono amministratore delegato e nel 2008 quando mi chiesero di restare ancora un anno».
Che cosa ricorda della sua prima volta a Maranello?
«La prima volta fu molto prima, negli anni ’70. Accompagnai Jean Guichet di cui ero copilota. Ricordo che il commendatore gli disse: ma come, di solito vieni con delle belle donne, con chi sei venuto questa volta? Arrivammo con la sua Mercedes 600 passo corto».
Allora è un vizio quello di presentarsi in Mercedes. Fece lo stesso anche a casa di Montezemolo?
«Lui lo dice sempre. Ma gli chieda che macchina guida adesso».
Incontrò Ferrari altre volte?
«Alla fine degli anni Ottanta dopo che avevamo vinto due mondiali rally di fila con la 205. Attraverso Piccinini gli chiesi la prefazione di un mio libro su quei successi. Mi ricevette a pranzo a Fiorano con Gozzi, Pieri e Piccinini e ricordo che mi disse (e poi scrisse nella prefazione): per me Peugeot è brava solo a fare dei macinini da pepe...».
Poi venne la chiamata da Montezemolo.
«Fu Ecclestone nel luglio 1992 a dirmi: la Ferrari potrebbe avere bisogno di te, chiama Montezemolo. Ci sentimmo, lo incontrai una prima volta, poi venne lui a trovarmi a Parigi a settembre durate il Salone dell’Auto. Abbiamo discusso fino a fine anno e poi a marzo ho firmato...».
Ed eccoci al primo luglio 1993.
«Ho lasciato il mio ufficio in Peugeot, staccando i quadri dai muri alle 11 di sera del 30 giugno. Il mattino dopo Sante Ghedini venne a prendermi a casa portandomi la divisa e in macchina arrivammo a Magny Cours dove vi feci tutti contenti parlando già un po’ di italiano...».
Non fu un grande esordio.
«Fu un disastro. La prima decisione infatti fu di lasciare la squadra in pista per due giorni di prove supplementari».
Non fu un inizio semplice.
«La cosa di cui sono più orgoglioso è di aver preso io la decisione di andare via e di non esser stato mandato via. Tante volte negli anni difficili ho pensato che non sarebbe durata».
E qualche volta da Torino hanno chiesto la sua testa.
«Montezemolo mi fece leggere una lettera in cui glielo chiedevano. Ma lui mi difese, come mi difese anche Michael che un giorno disse: Se mandate via lui, me ne vado anch’io. Ma sa perché Montezemolo, a cui voglio bene, non mi cacciò? Perché non aveva trovato uno meglio di me».
Qual era il segreto di quella squadra?
«Fare le scelte giuste e ambiziose. Saper resistere alle pressioni interne come esterne. Avere la stabilità. Era una squadra unita, costruita con uomini bravissimi. Ross, Rory, prima Martinelli e poi Simon ai motori. Ognuno aveva il suo spazio. E non era Michael a fare il team principal come ha detto qualcuno. Era un grande leader, ma in officina c’eravamo noi. Non è stato comunque facile perché dal 1993 alla vittoria, abbiamo dovuto attendere tanto».
Il primo Mondiale costruttori nel 1991, il primo Mondiale piloti nel 2000...
«Ma non dimentichiamo il 1997 quando abbiamo perso a 10 minuti dalla fine per una cazzata di Michael. Lo dico con affetto, ma Michael in carriera ha fatto due-tre cose che non avrebbe dovuto fare e gli sono costate il mondiale. Nel 1998 poi abbiamo perso per una truffa, per l’incidente causato da Coulthard in Belgio».
È stato importante anche avere un presidente presente che sapesse di corse.
«È stato importante avere un presidente che non ascoltasse chi dall’esterno voleva cambiare le cose. Montezemolo lo conosciamo, ogni tanto gli saltavano i nervi. Ma mi ha sempre protetto e lasciato fare il mio lavoro».
Si racconta fosse una stakanovista.
«Non ho mancato un giorno d’ufficio. Andavo al lavoro anche con le stampelle dopo che mi ero rotto una gamba sul ghiaccio. E quando mi prese un brutto herpes mi feci montare un letto in ufficio».
Chi è Jean Todt trent’anni dopo?
«Lo stesso con i capelli bianchi. Con degli interessi diversi. La mia carriera mi ha aperto tante porte, anche se poi certe porte devi spingerle per aprirle».
La Ferrari le ha cambiato la vita.
«È vero, perché la Ferrari è di un’altra dimensione. E in Ferrari abbiamo vinto tutto. Poi ho cercato di restituire un po’ di quello che avevo ricevuto. Prima alla Fia e poi all’Onu e poi fondando con Saillant l’Istituto del Cervello e del Midollo Spinale che oggi ha mille ricercatori. Sono presidente della Suu Fondation in Birmania e dell’International Peace Institute a New York».
Guarda ancora le corse?
«Non potrei farne a meno. Guardo tutto. Dai rally, alla F1 a Le Mans e non perdo un gran premio. Il mondo non mi manca, ma non potrei mancare una corsa».
Bello veder vincere la Ferrari a Le Mans.
«Bellissimo. Avevo spinto io John Elkann a far tornare la Ferrari. Finalmente ha avuto il coraggio di rimettere la Ferrari in gioco».
Ha mai fatto caso che le due persone più importanti della sua vita si chiamano Michelle e Michael...
«Michelle è l’amore della mia vita. Michael è la mia famiglia. Ma non dimentichiamo mio figlio Nicholas. Sono molto orgoglioso di lui e di quello che fa con professionalità. Se non fosse per lui Leclerc non sarebbe in Formula 1».
Crede che Charles possa vincere il Mondiale?
«Dipende tutto dalla macchina. Il pilota è capace, ma senza macchina non può nulla. Michael senza la Ferrari (o prima la Benetton) non avrebbe vinto. Il pilota è importante, ma non basta. Se Verstappen guidasse la Ferrari e Leclerc guidasse la Red Bull, avremmo un campione diverso».