La Stampa, 2 luglio 2023
Maurizio De Giovanni utente massivo di taxi
Meglio costituirsi subito: sono un utente massivo di taxi. Al di là delle esigenze di lavoro, vado oltre le oggettive necessità e quando posso monto su un’auto pubblica immergendomi nel flusso di traffico e godendomi la passeggiata.
Non mi piace andare soggetto all’imperscrutabile imprevedibilità dei mezzi pubblici, che nella mia città sono una vera e propria lotteria: quelli sotto superficie vittime di frequenti guasti o incidenti di percorso, oltre endemici ritardi dovuti alla carenza di treni; quelli sopra la superficie rallentati o bloccati addirittura dal traffico e dai parcheggi selvaggi di auto in tripla fila. Tutti per quanto detto ridotti a carnai danteschi, con sfide alla fisica e all’impenetrabilità dei corpi, con densità di popolazione superiori anche a tarda sera a quelle di Tokio nell’ora di punta.
Taxi, quindi, ogni volta che l’instabilità atmosferica o il desiderio di preservare la mia incolumità mi porta ad abbandonare il fido scooter. Peraltro pensare di trovare parcheggio equivale, in certi orari, a comprare un immobile con la certezza di poterlo pagare grazie a una vincita al superenalotto.
Ora, devo dire che il taxi nella mia città ha un funzionamento del tutto diverso rispetto a quello delle altre metropoli italiane. In un certo senso, è il più fedele specchio della differenza sociale ed economica che passa tra Napoli e, per esempio, Roma o Milano.
Primo: le precedenze ai parcheggi. Il primo non è mai il primo, secondo criteri iniziatici che gli esseri umani non possono comprendere. Non è che, se chiedi, non te li spieghino: ma la spiegazione è assolutamente misterica, come un’antica religione dalle oscure liturgie. Tu sei il primo della fila, ma il tuo taxi è il tredicesimo e devi aspettare che gli altri si spostino. Questo comporta divertenti aggregazioni tra gli aspiranti clienti, con simpatiche scoperte sulle maledizioni in voga tra generazioni e luoghi di provenienza diversi.
Secondo: l’abitacolo e le condizioni generali delle vetture. Niente aria condizionata ("dotto’, mi volete fare ammalare? Io ci passo tutto il giorno, qua dentro!"), sedili rabberciati ("Sì, avete ragione, ma i clienti certe volte tengono i cani, certe altre i bambini, e non so chi fa più danni!"), sospensioni che sembrano sponsorizzate dalle cliniche ortopediche ("Uno scandalo, dotto’, io vorrei sapere perché paghiamo le tasse con le strade in queste condizioni, al nord una macchina con trecentomila chilometri è nuova, io qua con duecentomila già la devo cambiare!").
Terzo: il prezzo finale. A me, formattato dai taxi della mia città, capita di chiedere nelle altre città: quanto devo? Il tassista mi guarda in quelle occasioni come un deficiente che non sa leggere, e ripete sorpreso il numero in bella mostra sul tassametro. Qui l’importo non è mai, e dico mai, quello. Ci sono sempre numerosi e onerosi supplementi da aggiungere verbalmente e da pagare in contanti, bagaglio tangenziale aeroporto stazione festivo serale notturno mattutino onomastico del conducente eccetera. Va da sé che sui supplementi, a volte pari alla cifra risultante dal tassametro, non si pagano imposte; ma questi sono dettagli.
Dice: ma allora perché ti piace prendere il taxi? Semplice: per il tassista.
Perché, per luogo comune che sia, il tassista napoletano è un raffinato psicanalista. Gli basta un’occhiata per capire se ti va di chiacchierare o no, e di che argomento; se vuoi un viaggio diretto o vuoi vedere un po’ di panorama, se hai telefonate da fare o se hai bisogno di confidarti. Il raffinato silenzio con sibilo da macchina elettrica milanese è fatto di solitudine, merce irreperibile nel mondo tassistico napoletano. A Roma semplicemente il taxi non c’è, e questo risolve la questione. E allora il supplemento è anche poco, credetemi.
Una volta a un amico che vive al nord, che chiedeva in una giornata afosa un po’ di climatizzazione, un tassista rispose: dotto’, l’aria condizionata è rotta. Ma se volete, vi canto una canzone che vi fa venire la pelle d’oca.
Qualcuno sa quantificare quanto valga, uno così? —