Domenicale, 2 luglio 2023
Futuristi in Vaticano
Quando fu pubblicato, nel 1927, la sua comparsa equivalse a uno schiaffo in faccia all’editoria italiana, attardata su austeri modelli ancora ottocenteschi, bellettristici e polverosi. L’orientamento orizzontale del volume, i fogli di grammature diverse, inchiostri di vari colori e poi un tripudio di caratteri tipografici, righe di scrittura che irraggiavano in tutte le direzioni, mise en page che cambiavano di foglio in foglio e calligrammi iper-moderni. Ma soprattutto la legatura che rendeva estraibili e intercambiabili le pagine, fissata da quei due vistosissimi bulloni d’acciaio, che ne facevano – come dichiarava bellicoso e compiaciuto l’autore – un «libro pericoloso», perché, infilato sul ripiano della libreria, avrebbe irrimediabilmente sfregiato quelli vicini.
Fortunato Depero lo aveva concepito come roboante autopresentazione in vista della sua imminente trasferta negli Stati Uniti: intitolato Depero futurista: 1913-1927, conteneva la summa della sua produzione artistica – un moderno “book” – e sarebbe passato alla storia dell’editoria e del collezionismo librario come “Depero imbullonato”. Una rarità per palati sopraffini e fortunati. Tirato in mille esemplari, uno ne è stato da poco ritrovato tra gli stampati della Biblioteca Vaticana. «Zang», avrebbero chiosato i sodali dell’autore!
Un capolavoro niente affatto isolato, per giunta, perché accanto ad esso sono riemersi, oltre alle sue Liriche radiofoniche, la collezione quasi completa dei manifesti del Futurismo – artistico, musicale, filosofico e letterario – l’intera produzione di Filippo Tommaso Marinetti, dossier Mafarka compreso, e quella dei minori e minimi: Franco Casavola, Paolo Buzzi e Libero Altomare, tra gli altri. La pars construens del movimento, polemicissima e pirotecnica, con Il mio futurismo di Giovanni Papini e le Risate esplosive di Fernando Cervelli, autore di un’epica Fagiolata con Nicoletta, che fece stampare sulla copertina un monito che era tutto un programma: «Vietato l’ingresso ai minorenni e a tutti i ruderi barbuti imperlati di acida sapienza…». E quella destruens, che va da Uccidiamo il chiaro di luna! di Marinetti alle raccolte di Luciano Folgore in cui vengono messi alla berlina i poeti e i prosatori che avevano fatto l’Italia: Carducci, Pascoli, Pirandello, Deledda, Ada Negri, Novaro e, ovviamente, il divino Gabriello. Con titoli assai poco “vaticani”: dal dittico ideale costituito da Donna allo spiedo di Emilio Settimelli e Vostro marito non va?... Cambiatelo! di Mario Dessy, a L’isola dei baci di Marinetti e Bruno Corra, da Un istituto per suicidi di Gilbert Clavel alle Revolverate di Gian Pietro Lucini, fino a Gli amori futuristi. Programmi di vita con varianti a scelta, sempre di Marinetti. O l’ingegnoso calligramma dagli Archi Voltaici. Parole in libertà e sintesi teatrali in cui Volt (al secolo Vincenzo Fani Ciotti) schernisce «le ascensioni – processioni – di beghine-scarafaggi» che settimanalmente dal centro di Milano salivano al Sacro Monte di Varese per i pii esercizi, lasciando il tipico «puzzo di umanità domenicale».
Un patrimonio di quasi quattrocento volumi, di cui nessuno sospettava l’esistenza nella biblioteca dei pontefici. Libri che, peraltro, non erano nascosti in qualche segreta o censurati per antica abitudine, né giacenti in disordine o in stato di abbandono, ma regolarmente accessionati, ordinati e catalogati. Disponibili alla consultazione. Com’è possibile? Come si spiega un caso del genere? Con la constatazione che il catalogo non è che il primo, necessario ma insufficiente, livello di autocoscienza di una istituzione. Che senza ricerca e studio rimane lettera morta. Cumulo di notizie confuse, se non c’è qualcuno che si prenda la briga di dragarlo con senno, scienza e coscienza. Sfidando i luoghi comuni e i preconcetti, che intralciano la ricerca più di quanto si possa immaginare.
È così che lo straordinario fondo futurista della biblioteca Vaticana è riemerso grazie alle ricerche di una brillante collega, Simona De Crescenzo, che non si è fatta prendere in contropiede dal pregiudizio e ha rilanciato, tentando l’assurdo: verificare se per caso non fosse presente nella raccolta pontificia l’opera di colui che aveva fatto della guida del Cattolicesimo il ridicolo personaggio del suo Aeroplano del papa, immaginando di sballottarlo in giro per l’Italia, sospeso alla carlinga dell’aeromobile, per poi liberare la Penisola dalla sua nefasta presenza, gettandolo di là dalle Alpi.
E chi avrebbe poi pensato – a proposito di pregiudizi che saltano – che tutti i volumi futuristi provenissero da una sola delle decine e decine di collezioni vaticane, appartenuta per giunta a un prete cattolico? Ma in questo caso non si è trattato che di una mezza sorpresa, una volta scopertone il nome: don Giuseppe De Luca. Il fondatore delle Edizioni di Storia e Letteratura e dell’Archivio per la Storia della pietà popolare, l’amico di Giovanni XXIII e di Giacomo Manzù, l’interlocutore dei principali artisti e letterati del suo tempo, colui che di sé diceva: «…e son prete, del sacerdozio apprezzando e vivendo la verità profonda più che non la prassi e il mestiere». Un uomo dalla fede così viscerale e autentica, da non conoscere la paura e da andare verso chiunque con curiosità e un fitto carico di argomenti da affrontare. Da uomo a uomo. Guadagnandosene la stima, anche quando si fosse trattato dell’anticlericale Croce, che infatti lo invitava a pranzo in casa, o dell’ingovernabile Marinetti, che avrebbe addirittura messo su bianco la propria ammirazione per l’«alta intelligenza dinamica» di De Luca. Col senno di poi, ma solo con quello, si è trattato di una scoperta ovvia: De Luca e la Vaticana condividono il medesimo spirito umanistico, che non ritiene aliena nessuna espressione dell’intelligenza umana. Al di là della fede, della politica e di quanto possa dividere sulla terra. Una prova ulteriore, e definitiva? Ebbene, il “Depero imbullonato” di don Giuseppe è il numero uno della tiratura, con dedica autografa al capo del governo italiano. Era il 1927, si diceva.