Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  luglio 02 Domenica calendario

Quando le banlieues si rivoltano

Duemilacinque e duemilaventitré: vi sembran pochi diciotto anni? Eppure la loro storia si sovrappone da sé, con arte. Il mio block notes di corrispondente a Parigi lo testimonia, scritto giorno per giorno nel bollore degli avvenimenti tra l’ottobre e il novembre di quell’anno: ribellione delle periferie, banlieue in fiamme. Tonfo plumbeo che venne a scombinare l’impressione iniziale di accingermi a descrivere un paese in dignitosa ma quieta decadenza. Con il rimpianto quindi di esser arrivato in Francia a tavola storicamente sparecchiata, alla frutta.
Lo sovrappongo, quel vecchio taccuino, alle cronache di questi giorni e mi pare, con un gesto semplice, di aver annullato il tempo. Tutto si svolge su livelli cronologicamente diversi che però combaciano e sfociano in un solo fenomeno. La commedia degli errori da parte dei governanti diventa lampante dato che questa disastrosa storia è anche una storia lucida. Dove il nocciolo creativo è la ottusità e l’ipocrisia di una classe politica che ha fatto bancarotta spalleggiata dalla magnifica inutilità di sedicenti “maîtres à penser”. Le tre parole provvidenziali che governano la Francia sono: “c’est son affaire”, è affar suo. Le spine delle periferie sono state per 18 anni, ricoperte, soffocate da destra e “gauche” teologicamente nemiche ma spiritualmente affini, quasi con una aria sorda, di gente che non vuole avere fastidi. E che ha continuato a distribuire topograficamente l’ineguaglianza sociale con la perizia di un esperto seminatore.
2005, allora fu a Clichy-sous-Bois, una scheggia, come Nanterre, dell’altra Francia, quella delle periferie, economiche mentali umane. Dove un tempo abitavano gli operai e le sezioni del partito comunista incanalavano la rabbia della gente verso le elezioni, gli scioperi, Marianne, il sogno del nuovo Fronte popolare. Adesso le casette non c’erano più, sostituite dai serpentoni di cemento, che negli anni Sessanta erano progetti riveriti e premiati di architetti di avanguardia per creare città satellite ideali. Ora sono il destino immobiliare degli immigrati della seconda e terza generazione, neri e magrebini, estrema onda umana dell’"Empire” arrivata fin qui a svolgere i lavori che i francesi non vogliono più fare. I padri e i nonni sognavano il giorno in cui avrebbero dato loro il passaporto francese, il giorno della integrazione nella République. I nipoti che hanno studiato nelle scuole di Francia, a cui hanno insegnato la Marsigliese e le delizie della “fraternité”, quel passaporto ormai l’avevano in tasca; il guaio è che non lo volevano più.
Loro guardavano incarogniti l’altra Parigi, quella che è non a parasanghe, leghe o chilometri di distanza ma solo al di là del périférique. Un Muro, simbolico ma invalicabile, li separa dai boulevards, dal centro delle grandi città, teatro per altre, più chiccose eguaglianze. Loro erano, e sono, quelli che stanno nei quartieri numero, il “93’’ ad esempio, che smuove la prosa lutulenta dei rapporti di polizia, degli allarmi prefettizi. Quando sbarcano dal metrò, come sempre, la polizia li blocca sospettosa, li controlla sgarbatamente, li costringe a tornare indietro. Sono “teppisti da ripulire con energia”, come sintetizzava un ministro degli Interni che fece purtroppo carriera e si chiamava Sarkozy.
Andammo allora a vedere quella “jacquerie’’ nei quartieri illuminati dai falò, alcuni tra noi grottescamente vestiti come per immergersi nei boulevard di Falluja, con il giubbotto e l’elmetto. Incontrammo questi giovani che escono dalla culla retorica della scuola al primo ostacolo, e dopo trovano il vuoto. In questi quartieri la disoccupazione è del venti per cento, il doppio di quella nazionale. Allora ci si affida ai caids, i capibanda che controllano i traffici, che ingaggiano i Gavroche magrebini per lo spaccio e pagano bene. Perché la malavita colma i vuoti che lascia una République sempre più avara. La banlieue è diventata, da ghetto, identità e rabbia.
Zaid e Bouma erano due adolescenti che, il 25 ottobre 2005, avevano istintivamente paura della polizia, dello Stato, come Nahel diciotto anni dopo. Per questo quel giorno, quando nel centro della cité incontrarono i “flics’’ impegnati in un controllo, fuggirono. Scelsero per seminare gli inseguitori come rifugio una cabina elettrica, dove morirono bruciati vivi. Una piccola, trascurata notizia di cronaca nera in fondo. Nei caffè della Rive gauche continuarono le disquisizioni quattrinose, i teatri erano affollati per i loro laboratori di incanti, il ristorante di Ducasse, come sempre, non aveva tavoli liberi. Fu il segnale della rivolta durata due mesi, delle notti illuminate da migliaia di auto bruciate, da una guerriglia con la polizia assurta a simbolo di un potere estraneo e ostile. Fu insomma la crisi del modello francese che promette sempre e non mantiene.
Una Intifada di giovanissimi incappucciati, nichilista e sterile, dove la religione ha giocato un ruolo marginale, in cui si dava fuoco a scuole, biblioteche e palestre. Non furono i rinforzi di polizia a spegnerla, (anche le strategie del Ministero dell’Interno non hanno fatto progressi), e neppure i milioni assistenzialisti stanziati dal governo. Fu la consapevolezza che neppure così le cose potevano cambiare. I protagonisti di quella Intifada si sono rannicchiati su se stessi, sulla loro diversità. Hanno iniziato a battersi in guerre di bande etniche. Covando una rabbia ancora più forte e scura.
Oplà. Diciotto anni da una rivolta all’altra. E se volete aggiungerci una terribile sfumatura, la violenza, la rabbia sono aumentate. C’è un desiderio zeppo di propositi vendicativi sullo Stato e i suoi simboli. Inevitabile: perché il tempo non fa chiasso ma scava le coscienze, allarga il baratro, da una parte e all’altra degli innumerevoli “périférique’’, delle città di Francia.
Gli interessi in politica sono ciechi. la classe politica francese, così a modino, così professorale, i presidenti-monarchi che si sono succeduti in questi anni a destra e a sinistra, non sono certo stupidi. Sono stati semplicemente ciechi. Si rispose diciotto anni fa alla rivolta facendo un po’ di posto a ragazzi di banlieue meritevoli a “Science Po’’ e nelle Grandi scuole, areopago dei Potenti. È la vecchia lagna dell’annettere gli “evolué’’, come al tempo delle colonie, tante belle repliche del bravo Senghor con i suoi innocui poemi; o la fiaba della nazionale di calcio multicolore. Così il miliardario pompierismo di Mbappé può dare una mano invitando gli scavezzacolli a stare tranquilli, a tornare a casa. Anche la destra si ripete: allora fu Le Pen padre che inveiva perché si permetteva a quegli “stranieri’’ di aggredire la Francia.
Quello a cui nessuno ha provveduto è creare in quei quartieri una mediazione tra società e Stato che assorba la rabbia e la frustrazione dei giovani emarginati. Per trovarsi di fronte, brutalmente, alla questione sociale del ventunesimo secolo: precarietà, insicurezza, esclusione.