La Stampa, 2 luglio 2023
In cella si lavora
Anche nel 2022 i detenuti lavoratori sono stati circa un terzo del totale dei presenti negli istituti penitenziari, chiarendo subito che si sta quasi sempre parlando di lavoratori alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria (i cosiddetti «lavoranti»), per poche ore al mese e con turnazioni che limitano le prestazioni a pochi mesi, con remunerazioni pari ai due terzi di quanto stabilito dai contratti collettivi nazionali di lavoro. Il lavoro carcerario, quindi, è poco e per pochi, benché l’Ordinamento penitenziario (Op) lo ponga alla base del «trattamento», cioè dell’insieme di attività che dovrebbero realizzare il principio rieducativo fissato nell’articolo 27 comma 2 della Costituzione. L’articolo 15 Op stabilisce che ai fini del trattamento, «salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato è assicurato il lavoro». E l’articolo 20 Op, poi, precisa che «devono essere favorite in ogni modo la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro e la loro partecipazione a corsi di formazione professionale», con la fondamentale specificazione che il lavoro penitenziario deve avere forme organizzative e metodi tali da «riflettere quelli del lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale». Si tratta di norme però lontanissime dalla realtà, nella quale due detenuti su tre non svolgono alcun lavoro e solo in minima percentuale hanno la fortuna di essere impegnati in prestazioni veramente professionalizzanti e con la realistica prospettiva di un lavoro da liberi. Non sottovalutiamo l’importanza che in carcere hanno i cosiddetti «lavoretti» per conto dell’Amministrazione, in genere a prevalente impronta assistenzialistica: quando si vive una dimensione sovraccarica degli infiniti bisogni della marginalità ed afflitta da cronica mancanza di risorse, anche qualche ora sottratta all’ozio forzato e una limitata remunerazione possono fare la differenza. È altro, però, ciò che chiede l’ordinamento.
Il lavoro carcerario, per corrispondere alle finalità trattamentali che gli sono assegnate, deve avere i tratti essenziali del lavoro posto dalla Costituzione a fondamento della Repubblica democratica. Tratti che si ritrovano nell’impegno a rimuovere gli ostacoli che impediscono «la effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (articolo 3); nel riconoscimento a tutti i cittadini del «diritto al lavoro» (articolo 4); nelle tutele che al lavoro sono garantite «in tutte le sue forme ed applicazioni» (articolo 35); nel diritto a una retribuzione «in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza dignitosa» (articolo 36). È con queste lenti che si deve guardare, in campo penale, al lavoro che, in quanto perno del principio rieducativo, contribuisce a definire il «volto costituzionale della pena». Si potrebbe allora parlare di «volto costituzionale del lavoro», quale istanza di inclusione sociale, promozione di cittadinanza, contrasto effettivo e credibile dell’illegalità e della recidiva.
Un unico e articolato sistema di garanzie e tutele poste a difesa della dignità assoluta delle persone. Certo, nello specifico penale il lavoro non può di per sé garantire, sempre e comunque, esiti positivi; ma è indubbio – e le statistiche lo confermano – che con il lavoro si riducono le derive criminali e la recidiva, i cui numeri impietosi testimoniano tutti i limiti dei nostri sistemi punitivi. Si pongono in questa prospettiva, ci pare, diverse sentenze di giudici del lavoro che da qualche anno riconoscono il diritto al trattamento di disoccupazione (NaspI) da parte di ex-detenuti che abbiano svolto attività lavorativa alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Il disconoscimento di questo diritto – si legge in queste sentenze – sarebbe una palese violazione della Costituzione, un comportamento illegittimo e discriminatorio. Negare la prestazione assicurativa contro la disoccupazione involontaria significherebbe impedire al lavoro penitenziario di realizzare la finalità rieducativa che ne è l’essenza, privando il detenuto di questa risorsa proprio nel momento più delicato del progetto di reinserimento sociale.
Decisioni così fanno sentire più vicina ed effettiva la dimensione della dignità del lavoro su cui stiamo riflettendo da tempo. Una riflessione fortemente stimolata dalle parole di Papa Francesco (Ilva di Genova, 2017): «Gli uomini e le donne si nutrono del lavoro: con il lavoro sono “unti di dignità”. Per questa ragione, attorno al lavoro si edifica l’intero patto sociale. Questo è il nocciolo del problema. Perché quando non si lavora, o si lavora male, si lavora poco o si lavora troppo, è la democrazia che entra in crisi, è tutto il patto sociale». Parole di grandissima carica ideale e civile che non si lasciano ridurre ad astratte enunciazioni, lontane dalla realtà. Il lavoro come priorità umana è tema di drammatica concretezza che investe anche lo spazio delle carceri e delle pene. Tanti studi e ricerche, con il rigore delle analisi quantitative, mettono in evidenza, per esempio, come l’abbassamento dei tassi di recidiva, anche soltanto di pochi punti percentuali, comporta per il sistema complessivo «dividendi» umani, sociali, economici così consistenti da giustificare ampiamente ogni investimento in formazione professionale e lavoro. Addirittura, considerati gli altissimi costi del crimine, nel rapporto di uno a cinque. Scelte razionali, quindi: calcoli costi-benefici, impatti socio-economici misurabili, investimenti che producono valore e sicurezza. Niente di più lontano da vuote astrazioni o miti buonismi. Pura mitologia, piuttosto, sembra quella di chi parla di lotta all’illegalità, contrasto della recidiva, percorsi di reinserimento senza la più profonda e prioritaria promozione del lavoro, della sua «unzione» di dignità, del suo volto costituzionale. Dentro e fuori dal carcere. —