Avvenire, 2 luglio 2023
Sulla Szymborska
Sfoglio Vista con granello di sabbia cercando le impressioni della prima lettura.
Trovo Museo: “Ci sono i piatti ma non l’appetito!/ Le fedi, ma non scambievole amore/ da almeno trecento anni./ C’è il ventaglio – e i rossori?/ C’è la spada – dov’è l’ira?/ E il liuto, non un suono all’imbrunire”. Sono felice di averli ritrovati: i versi della poesia che mi aveva così colpito e il piacere di leggere Wisława Szymborska, che ieri non mi piaceva più. Ieri cercavo Salmo dove non era (sotto il titolo Frontiera, Confini), poi la trovo a pagina 327 de La gioia di vivere, titolo di Tutte le poesie (1945-2009). Mentre il titolo ideale di questo articolo potrebbe essere “Discorso bipolare”, per gioco naturalmente. Aspetto della vita che lei frequentò in versi, in prosa e disegnando. E vivendo.
La critica sottolinea la sua ironia, molto meno il gioco che è cosa diversa e a volte opposta. Arrotondando a 300 il numero di tutte le poesie, il calcolo si fa in un attimo: 300 diviso 50 (anni della carriera) uguale 6. Sei poesie l’anno. Questo farebbe saltare una delle riserve che iniziavo ad avere. Ma riguardo alle riserve, scritte tutte ieri, leggo oggi in Possibilità: “Preferisco avere delle riserve”. Nella stessa poesia in cui scrive: “Preferisco me che vuol bene alla gente/ a me che ama l’umanità”.
Mi avvio verso il secondo polo del discorso, ma non prima di aver detto che quando la Szymborska comincia una poesia le dispiace terminarla. Prolunga l’incontro dato che avviene così poche volte l’anno. Il prolungamento è per non voler rinunciare all’indugio dello sguardo, alla respirazione pausata, che farà più ferma la mano, alla distanza giusta dalle cose ardua da trovare fuori della poesia.
Lodata ripetutamente da Iosif Brodskij, tradotta da Anna Achmátova. Basterebbe questo a sigillare un giudizio critico per sempre. Ma a che punto siamo oggi con la poesia di Wisława Szymborska? Da quattordici anni sono uscite da noi le poesie complete, ma forse era già tutto nella prima scelta, Vista con granello di sabbia, approntata dalla poetessa l’anno stesso del premio, il 1996. Cento anni dalla nascita, venticinque dall’uscita di Vista con granello di sabbia di cui è probabile che subiamo ancora il felice contraccolpo. Ma scrivere di lei è un poco scomodo. Una versificatrice originale, sorprendente. Cosa sorprendeva? Padronanza assoluta del dettato, colloquialità del tono, una levità ineguagliabile, la distaccata meraviglia davanti allo spettacolo più quotidiano. Il rallentamento dello sguardo che avvicina ogni dettaglio. E con questo i primi rischi. Vale a dire: l’ironia stessa (i generi di ironia sono infiniti), la sensazione del poter scrivere su qualsiasi tema in qualsiasi momento, contraddetta dal numero esiguo di testi, in realtà. Quella prima antologia, complice l’impeccabilità della selezione, ci aveva colti alla sprovvista? Della pericolosa reversibilità delle doti era presto per accorgersi: il falsetto della voce, la maniera: non un tara qualsiasi, per un poeta. Tutto posto alla stessa distanza: gatto e nuvola, donna, lampada, mano, penna e stella, uomo, sabbia, anima. Ricerca della superficie per scelta. L’esemplare distacco che non tradisce un’apparenza, se non un’evidenza, di partecipazione umana. La quale può essere nascosta, a volte, altre non esserci: invisibilità in cui non è facile indagare. “Larghezza di spirito, strettezza di cuore”, scrisse Renard, che se ne intendeva alludendo a se stesso. I rischi non sono di poco conto. Usciamo dalla sua poesia per accennare una riflessione generale. Incapaci di sublime forse da due secoli o uno, abbiamo deciso che non ci interessava più? Via il sublime, non restava che accorgersi, finalmente, delle “piccole cose”, con la sensazione di aver trovato la chiave di tutto, delle nostre letture e delle nostre vite. Doliarizzi po mezzo secolo di concentrazione sulle piccole cose, fatte nel frattempo indistinguibili dalle minime, ci siamo resi ancora più inetti alle grandi. A riconoscerle, se non è possibile di più. L’autore del trattato Sul sublime recriminava, due millenni fa, che le similitudini che in Omero erano stabilite sul grande (tempeste e alluvioni, montagne, e balene, tori, leoni), ora lo erano sul piccolo: ruscelli e fonti, zefiri e farfalle, zanzare. Non siamo più Hölderlin né Rilke né Celan. Il sublime da solo, arduo e doloroso, quasi annichilente, può uccidere. Ma senza tentare un’altezza o una profondità, senza estendere il campo non mancheranno profondità e altezza solo, ma il fondo su cui si delineano e si illuminano le piccole cose.
Un altro polacco, Zagajewski, è autore di un saggio in cui parla di questo: la poesia è sempre un andare dall’alto al basso e di nuovo all’alto; dalla superficie scendere fin dove si può, poi risalire. Zagajewski è il nome giusto per un confronto, come anche Miłosz. Tre poeti che maneggiano come pochi l’ironia, innamorati delle cose “come sono”, che celebrano senza alzare la voce. Tre poesie filosofiche. A meno che la Szymborska si ritrovasse a essere una di quelle artiste perfette per “rendere popolare” un’arte, ruolo non si sa quanto lusinghiero. Ti fami la poesia polacca, di valore europeo, con lei, poi passi a Zagajewski, Miłosz, Herbert?
Li vedo che vanno insieme alla Fiera del libro di Francoforte. Li immagino in treno ma sarà stato un aereo: da Cracovia a Francoforte ci sono quasi mille chilometri. Ma con i poeti non si sa mai. È l’anno del Nobel alla poetessa e Miłosz l’aveva ricevuto nel 1980. Li vedo mentre parlano, sorridono. Dalla scrittura non puoi farti un’idea di certi aspetti della persona. Parlano tutto il tempo, interrompendosi? O solo qualche domanda e risposta, perché tra amici può andare così? Lei nei versi era loquace ma qualche rara volta laconica. Come in Vermeer, penultima poesia dell’ultima raccolta: “Finché quella donna del Rijksmuseum/ nel silenzio dipinto e nel raccoglimento/ giorno dopo giorno versa/ il latte dalla brocca nella scodella/ il Mondo non merita/ la fine del mondo.