il Giornale, 2 luglio 2023
Biografia di Lucien Rebatet
Il saggio Un rivoluzionario decadente (Oaks editrice) di Claudio Siniscalchi chiude idealmente un ciclo apertosi anni fa con Quando la nouvelle Vague era fascista e proseguito poi con un’analisi sul cinema francese e Robert Brasillach (Senza romanticismo), entrambi incentrati su quello che si può definire il modernismo reazionario in campo artistico, il cinema, appunto, in quanto arte per eccellenza del XX secolo, ma anche la letteratura e la pittura, la sua nascita e il suo radicarsi, la sua sopravvivenza, più o meno mascherata, nella Francia del secondo dopoguerra e sino agli anni Sessanta. In questo nuovo saggio, il protagonista principale, come si evince fin dal sottotitolo, «Vita maledetta di Lucien Rebatet», è una delle figure più controverse, se non più odiate, del cosiddetto collaborazionismo degli anni della Seconda guerra mondiale, polemista di talento, ma sfrenato, antisemita furioso, autore di un fluviale pamphlet, più di seicento pagine, Les Décombres, Le macerie, che fu il più grande successo di vendite nella Francia occupata e che però, insieme con la sua attività giornalistica, gli valse, a guerra finita, una condanna a morte per alto tradimento. Al plotone d’esecuzione Rebatet riuscì a scampare, perché la pena venne poi commutata nel carcere a vita. Dopo sette anni di prigione, la grazia, firmata dall’allora presidente della Repubblica, lo rimise in libertà, ma a quest’ultima non corrispose un ritorno sulla scena pubblica. Nonostante avesse scritto in cattività quello che è oggi considerato uno dei grandi romanzi del Novecento francese, e non solo, Les deux étendards (in italiano è uscito solo due anni fa da Settecolori, I due stendardi) la cortina del silenzio e del disprezzo lo circondò fino alla sua morte, nel 1972, con uno sparuto lampo di riconoscimento in occasione della pubblicazione di una sua Histoire de la musique, ancora affascinante, ma ormai datata. Di Les Décombres, scrive Siniscalchi, uscì post mortem (1976), ma in conformità a quanto aveva indicato ancora da vivo, un’edizione purgata, con l’eliminazione di un centinaio o poco più di pagine, 126 per l’esattezza, quelle che costituivano la parte finale, «Pétite Meditation sur quelques Grands Thèmes». Comprendevano un attacco alla religione cristiana, al regime di Vichy e all’esercito francese che, di per sé, non ne giustificavano l’eliminazione. Il perché della censura è nelle cinque pagine in essa presenti e raggruppate sotto il titolo «Le Ghetto», ovvero antisemitismo allo stato puro, e nelle venti in cui l’autore ribadiva la sua fede nel fascismo («L’esperance, pour moi, est fasciste»). Rebatet avrebbe voluto rimodellare il tutto, ma il progetto si arrestò e si preferì un taglio drastico. Aggiustamenti minimi e minori, per un totale di una dozzina di pagine, ci sono anche nelle precedenti 536: sono piccoli tagli, correzioni di stile, attenuazione o soppressione di qualche attacco ad personam (Malraux, Mauriac...) e ai francesi in generale, incitazioni all’odio e alla guerra civile, aggettivazione antisemita troppo virulenta... Per Siniscalchi, si tratta di una «revisione con varie, ampie e significative amputazioni del testo originario», ma, da semplice lettore, non sarei così severo, nel senso che, ciononostante, in fondo c’è tutto Les Décombres: non è necessaria quella parte finale per sapere il pensiero di Rebatet su cristianesimo, ebrei e governo di Vichy, già sparso precedentemente a piene mani, qualche cambio o eliminazione di aggettivi e di nomi toglie poco o nulla alla violenza linguistica che lo permea dall’inizio alla fine, eccetera. Da storico, Siniscalchi è per le edizioni originali e noi siamo con lui e con i curatori di quel Dossier Rebatet (Laffont editore) che nel 2015 ne ha curato la ristampa integrale. Più semplicemente, quel testo «maledetto» del 1942, nel 1976 era comunque disponibile a un buon novanta per cento del suo contenuto, grazie a un editore non conformista, Pauvert. Che però in Francia sia dovuto passare ancora un mezzo secolo per stamparlo com’era, fa capire quanto la materia che lo costituiva fosse infiammabile, ma anche quanta coda di paglia nazionale ci fosse intorno, timorosa di andare a fuoco e/o per nulla desiderosa di assistere all’incendio. La «maledizione» del libro è infatti anche strettamente legata al successo che conobbe quando uscì. Siniscalchi intelligentemente costruisce intorno a Rebatet tutta una serie di riferimenti filosofici e ideologici atti a dimostrare come in fondo «il vero volto del fascismo francese» fosse il suo, più e meglio del decadentismo di Drieu La Rochelle, del romanticismo di Robert Brasillach, per non parlare del nichilismo di Louis-Ferdinand Céline. Ma in Les Décombres Rebatet è soprattutto il patriottico francese medio che vede da un giorno all’altro la nazione arrendersi senza praticamente combattere. È la tragedia senza gloria, ovvero la vergogna, la chiave di volta del libro, e con essa il processo alle responsabilità, il non volere che tutto ricada sulle spalle di chi si è fidato, ha creduto, è stato ingannato. È lo stesso sentimento che anima Suite francese, il romanzo con cui Irène Némirovsky affronta il medesimo tema, il furore, la paura e il dolore di chi si ritrova in fuga, costretto a lasciare la propria casa, imprecando e maledicendo. È un sentimento di odio che monta e nello stile pamphlettistico che è una tradizione francese, Rebatet non risparmia frustate e epiteti ai suoi connazionali, colpevoli di essersi troppo cullati sugli allori, democratici da aperitivo e da meeting per la pace... È una gigantesca chiamata di correo costruita con la lucidità e la capacità stilistica di chi sa benissimo come ogni lettore scaricherà sul vicino di casa, sul superiore o sul collega di ufficio la colpa di ciò che è avvenuto, assolvendosi e salvandosi l’anima... Ma proprio perché la catastrofe è gigantesca, Rebatet ha facile gioco nel denunciare e mettere in un unico calderone i partiti e la repubblica parlamentare, i comunisti che hanno applaudito l’accordo Molotov-Ribbentrop e il governo Blum del Fronte popolare, e persino i vecchi amici dell’Action française, Maurras in testa, incapaci a fare una seria opposizione nazionale, persi dietro il sogno monarchico e nell’idea di una Francia naturaliter antitedesca senza però che, dal punto di vista bellico-militare, si sia fatto nulla in tal senso. E in più, naturalmente, c’è l’odio contro gli ebrei, il disprezzo per i preti e i loro sermoni pacifisti, la massoneria e insomma tutto il concentrato dell’anti-democraticismo francese fra la fine dell’Ottocento e la «drôle de guerre», rimesso a nuovo con il fascismo del XX secolo. Sino a Les Décombres, Rebatet è stato un giovane e brillante critico di cinema e di musica, un appassionato di pittura, un giornalista di valore, ma non ha mai scritto un libro, si tratti di un romanzo o di un saggio, degni di questo nome. Viene dalla provincia, è figlio di un notaio, morto poi suicida, ha un carattere emotivo, pronto a infiammarsi. La guerra, sotto questo profilo, ne accentuerà i lati meno stabili, gli stessi che lo faranno passare dall’oltranzismo dei giudizi critico-artistici all’estremismo delle enunciazioni ideologiche e politiche. La debolezza delle analisi geopolitiche di Rebatet è in Les Décombres esemplare. Quando il libro esce, gli Stati Uniti sono già entrati in guerra da mesi e mentre egli festeggia il suo successo di scrittore gli anglo-americani sono già sbarcati nell’Africa del Nord, ma nel libro ha previsto che prima del 1945 gli Stati Uniti non saranno operativi. Gli sfugge l’idea che più il fronte si allarga e meno la Germania è in grado di controllarlo e l’essere la Francia comunque un Paese occupato lo spinge a equilibrismi culturali: è la sua grandezza passata di nazione, spiega, ad assicuragli un futuro a fianco di Hitler e della Germania... Quel successo editoriale senza precedenti è un po’ la cartina di tornasole dei sentimenti francesi dell’epoca, esacerbati anche dal comportamento inglese nei confronti dell’ex alleato, ma è uno stato d’animo destinato a cambiare già con la fine del 1942. Rebatet, paradossalmente, non si rende conto che il suo trionfo prepara la sua catastrofe successiva, quando cioè nessuno vorrà più aver condiviso le sue invettive e i suoi scatti di ira e di disprezzo. Di suo ci mette in più un giornalismo sempre più estremista, violento, omicida nella denuncia di singoli individui, che poi gli si rivolterà contro. Nel libro di Siniscalchi c’è spazio per questa analisi, così come per il Rebatet successivo, narratore puro che in carcere scrive il suo romanzo capolavoro, I due stendardi, all’inizio ricordato. Ma Les Décombres resta, anche stilisticamente, come documento storico-letterario di un’epoca e andrebbe oggi tradotto e letto in tal senso.