la Repubblica, 2 luglio 2023
Intervista a Ferdinando Scianna
Citando il buon Walter Benjamin, solo dopo aver fatto il giro il mondo, ho capito che si viaggia per capire meglio da dove si parte».
Tempo di bilanci per il fotografo Ferdinando Scianna. Domani taglia il traguardo dei suoi ottant’anni e li festeggia con la mostra Ti ricordo, Sicilia curata da Alberto Bianda e Paola Bregna.
Ottanta immagini fotografiche, proprio come i suoi anni, esposte nelle sale del Castello Ursino di Catania fino al 28 ottobre.
Scianna, come tutti i grandi autori, è personaggio autentico.
Il vocione tonante, la risata solenne, gli occhi chiari e il volto antico. Una carriera invidiabile quella del fotografo siciliano, primo italiano nel 1982 ad essere ammesso nella mitica agenzia Magnum Photos.
Un’età che rappresenta un traguardo meraviglioso.
«Ottant’anni non sono una bella cosa. Non so nemmeno come ci sono arrivato ma è stata una magnifica avventura di vita. Mi consente di realizzare quanto sia stato prezioso il luogo del mio scontro e del mio riscontro: Bagheria».
Bagheria è anche la città di Giuseppe Tornatore.
«Un posto curioso, dove c’erano anche cose orribili ma che ha prodotto tanti personaggi formidabili: Peppuccio Tornatore, Ignazio Buttitta, Renato Guttuso. Tornatore è più giovane di me. L’ho conosciuto grazie a un fotografo del mio paese che si chiamava Pintacuda.
Mi chiese di guardare le foto di un ragazzo che, secondo lui, aveva occhio. Fu proprio quello il personaggio che ispirò il proiezionista Alfredo nel filmNuovo Cinema Paradiso. In quel film c’è tutto il mio mondo. Quella magia l’ho percepita quando sono andato a visitare il set del filmBaaria girato in Tunisia. In quel luogo di finzione ho ritrovato l’autenticità che non esiste più.
Quando sono partito da Bagheria, ho portato con me una piccola cassetta di legno. Conteneva i negativi dei miei primi lavori.
Dopo trent’anni ho aperto quel vaso di Pandora e sono riemerse le immagini che avevo catturato come pervaso da una sorta di furore».
Suo padre non accettò la sua scelta di fare il fotografo.
«Mio padre era l’ultimo discendente di una famiglia agiata che aveva collezionato disastri. Il primo era stato il bisnonno Giacinto, rovinato dall’arrivo di Garibaldi. Il nostro benessere fu spazzato dalla peronospora che distrusse il vigneto di famiglia. È vero, papà fu deluso dalla mia decisione di fare il fotografo. Mi disse: “Ma che mestiere è?”. Nel 1961 mi sono iscritto alla facoltà di lettere di Palermo dove ho avuto la fortuna di conoscere Cesare Brandi.
Quando gli comunicai che stavo per lasciare Palermo mi trattò peggio di mio padre».
Il suo rapporto con Sciascia è stato determinante.
«È stato un angelo paterno che mi ha cambiato la vita. È stato un maestro, un padre. Quando l’ho conosciuto nel 1963 lui frequentava l’archivio di Palermo.A presentarmelo fu il professore Vincenzo D’Alessandro, lo aveva invitato a pranzo a Bagheria e gli aveva mostrato le mie foto esposte al circolo di cultura. A ventuno anni mi presentai a Racalmuto portandomi dietro un’enciclopedia di ignoranza.
Non fu facile trovare la contrad a Noce. Lo trovai in quella casa di campagna fatta di gesso, un luogo tolstojano. Decidemmo di pubblicare il libro,Feste religiose in Sicilia.Fu un autenticodisastro. Il quotidiano della Santa Sede L’Osservatore Romano,stroncò il libro. Fiorirono polemiche aspre ma, l’anno successivo, ci assegnarono il premio Nadar. L’ultima volta che lo vidi fu a Milano nel novembre del 1989. La sua malattia lo aveva ormai minato irrimediabilmente. Dopo ventisei anni di amicizia mi chiese, per la prima volta, di fargli un ritratto. Fu una richiesta atroce, come l’ultimo desiderio di un condannato a morte».
La sua seconda città è stata Milano.
«Nel 1967 decisi di partire per Milano. Nel 1968, in compagnia dello scrittore Vincenzo Consolo, ci recammo alla stazione centrale, attendevamo l’arrivo del treno che portava gli esuli in fuga dal terremoto del Belice.
Pubblicammo un reportage su una rivista che si chiamavaL’Italia illustrata. Tutti quegli esuli, compreso me, si sono presto sentiti parte di una città che era illuogo geometrico di tutte le regioni d’Italia. A Milano mi accolsero nella redazione dell’ Europeo. Un luogo dove ho imparato a fare quello che sognavo di fare, fotografare».
Ancora una città a segnarle il destino, Parigi.
«Nel 1974 Tommaso Giglio, direttore dell’ Europeo, mi spedì a Parigi per seguire le elezioni del presidente Giscard d’Estaing.
Doveva essere una cosa temporanea. Sono rimasto a Parigi per dieci anni come corrispondente. Lì ho incrociato un altro maestro, Henry Cartier-Bresson. Da lui ho imparato a essere testimone invisibile».
Il mondo della fotografia sembra giunto alla fine di un percorso.
«L’Italia ha un atteggiamento provinciale e colpevolmente distratto nei confronti della fotografia. Borges diceva che, per fortuna, gli scrittori venivano trattati male, solo così potevano licenziare capolavori motivati.
Anche i fotografi italiani hanno questo privilegio, quello di essere ignorati dalle istituzioni. Ma se un giorno si vorrà capire l’Italia degli ultimi settant’anni si dovranno scrutare con attenzione le fotografie di Gianni Berengo Gardin».
Tra i tanti scenari della sua carriera anche quello della moda.
«Tutto è cominciato con un equivoco divertente. Domenico Dolce e Stefano Gabbana, erano esordienti di talento. Vennero a trovarmi e mi mostrarono una serie di fotografie. Chiedevano un lavoro come quello. Solo che quelle immagini non erano lemie, erano di un altro autore.
Sorridemmo divertiti. Accettai la sfida di occuparmi di moda, proprio perché mi divertiva.
Partimmo alla volta della Sicilia a bordo di una Volvo station wagon piena di abiti. Con noi la modella olandese Marpessa Hennink.
Fotografai quegli abiti come sapevo fare, da reporter. Scatti che intrappolarono uno stormo di scolari che uscivano da una scuola siciliana, la modella attorniata da una serie di signore di nero vestite, la quotidianità dei vicoli. Fu un successo clamoroso, inaspettato. Era proprio la Sicilia che i due stilisti volevano raccontare con i loro abiti».
Tra le mitologie legate al suo personaggio anche quella del suo proverbiale caratteraccio.
«Purtroppo non è più così. Sono anni che il mio amico Berengo Gardin dice che mi sto rammollendo. Io gli chiedo di non farlo sapere in giro. È stata una corazza che mi ha protetto da una serie di rompiscatole».
Che ruolo ha avuto la sua famiglia nella sua carriera?
«Ho tre figlie nate da due matrimoni: Fernanda, Francesca ed Eleonora. Hanno sofferto per un padre che non c’era mai. Due di loro non hanno voluto avere niente a che fare con la fotografia. Solo la più piccola si occupa di storia dell’arte. Il vero motore di questa avventura è stata mia moglie, Paola Bergna. Galeotta fu la fotografia. Lei si occupava della rivistaPhoto e di un’agenzia fotografica. Abbiamo un rapporto formidabile. Ho pubblicato quasi cento libri, tutti meditati e discussi con lei».
Progetti futuri?
«Gioco ancora con le mie figurine. Per festeggiare questi ottant’anni, mi sono regalato tre nuovi libri che usciranno nei prossimi mesi.
Visto che i miei piedi non mi consentono più di fare fotografie, per dirla con le parole di Paolo Monti, allora scrivo».
A ottant’anni ha paura della morte?
«Sono sopravvissuto a molte malattie. Lo scorso anno, prima della mostra a palazzo Reale a Milano, c’ero quasi riuscito. Ma alla fine non è accaduto. Non ho paura della morte. Dall’homosapiens fino ad oggi, una cinquantina di miliardi di individui si sono avvicendati su questo pianeta. Tutti morti.
Tranne i loro sogni».