la Repubblica, 2 luglio 2023
Intervista a Reinhold Messner
L’alpinismo non è uno sport: è cultura, l’incontro diretto con una natura ignota, con il pericolo, con la solitudine e con il silenzio. Solo questo, con la paura della morte, aiuta a capire cos’è la vita. La lezione della tragedia in Marmolada è che quanto successo, da qualche parte, si ripeterà. L’alpinismo lo sa e ne tiene conto, il turismo no ed è vittima della propria essenza di massa. Solo un salto di qualità culturale del turismo eviterà altre stragi: è tempo che la politica, consapevole dello sconvolgimento climatico, agisca concretamente». Reinhold Messner, primo alpinista in vetta a tutti i 14 Ottomila della terra, è a Canazei per le commemorazioni della sciagura che il 3 luglio di un anno fa ha causato 11 morti e 8 feriti. Il collasso del seracco sotto Punta Rocca ha trascinato a valle 63 mila metri cubi di ghiaccio e rocce: impossibile, per chi scendeva lungo la via normale che conduce ai 3.343 metri di Punta Penia, sottrarsi alle scariche di una bomba scagliata ad una velocità di 80 metri al secondo. Il tribunale di Trento non ha individuato colpevoli: secondo i periti, il crollo “è stato imprevedibile”. «Decisione – dice Messner aRepubblica – che condivido. Un alpinista esperto, avvicinandosi a quel seracco, si sarebbe potuto accorgere che il collasso era ormai inevitabile: ma nessuno poteva prevedere l’attimo esatto di quel crollo».
Ma si è fatto qualcosa per contrastare le conseguenze del surriscaldamento climatico?
«Sulla Terra siamo 8 miliardi, il surriscaldamento accelera perché finora abbiamo scelto di alimentare con l’energia fossile la crescita dell’economia industriale. Dopo quasi due secoli di inconsapevolezza, oggi conosciamo le conseguenze di uno sviluppo che distrugge la natura. Gli accordi globali pro-clima però non vengono attuati: la Marmolada è il simbolo del treno da cui non vogliamo scendere».
Qual è rispetto a un anno fa la situazione in alta quota sulle Alpi?
«Il caldo continua ad aumentare. La neve della primavera si è sciolta in una settimana. Con i ghiacciai ora si scioglie il permafrost che li sostiene.
Le rocce riemergono dopo secoli e si sgretolano. Le Alpi sono un ambiente sempre più fragile, più difficile e più rischioso».
Qual è l’impatto del cambiamento climatico sulle Alpi e su quanto resta dei ghiacciai?
«La catastrofe è più veloce.
L’anidride carbonica prodotta da città e distretti industriali devasta la Terra là dove gli equilibri sono più delicati. Io vedo la quota di alberi e animali salire sempre più in alto. Il paesaggio è già irriconoscibile.
Presto, per lunghi periodi, non avremo più acqua. Nemmeno la visione quotidiana del disastro ci induce a investire sempre più nella ricerca scientifica e a cambiare radicalmente gli stili di vita».
Cosa si può fare per non rifugiarsi nel fatalismo che predica l‘impotenza umana per rinviareogni scelta?
«Per agire serve un governo mondiale realmente rappresentativo della popolazione. Non lo ha nemmeno l’Europa: vuole la pace, ma subisce una guerra. Anche il surriscaldamento del clima è un conflitto subìto: chi distrugge non paga e non viene punito».
Il crollo in Marmolada ha chiuso l’era della sicurezza per l’escursionismo d’alta quota sulle Alpi?
«La sicurezza è un falso mito. Non c’è mai stata. L’alta quota è pericolo, come l’oceano. La montagna non è cattiva, c’è e basta, priva di volontà.
Un alpinista tiene gli occhi aperti sul sentiero di casa: la comunicazione sull’escursionismo deve cambiare e dire la verità».
Anche l’escursionista della domenica deve cioè accettare il concetto di calcolo responsabile del rischio?
«Sì, non ci sono montagne sicure.
Esistono la conoscenza e la preparazione personale. Senza questa cultura il rischio degenera in azzardo. È tempo che l’escursionista della domenica durante la settimana si prepari in modo responsabile».
Chiudere al pubblico i ghiacciai in agonia può salvare vite?
«Nonostante tutto, resto contrario alla montagna chiusa. È una delle ultime forze che, se toccata con mano, ci fa capire chi siamo. Solo se entriamo nella natura, comprendiamo cos’è. Si salvano vite accompagnando i giovani in alta quota: solo così possono passare dalle proteste alle proposte, costringendoci a cambiare».
Alpinisti e scienziati sono coinvolti nelle scelte che possono rallentare il collasso della montagna?
«Nessuno li ascolta, la politica li ignora. I tecnici sono pochi, i partiti seguono i voti non i dati. Nessuno è innocente: in Himalaya studiavamo una settimana prima di posizionare un campo base, oggi si alzano tende e si costruiscono case dove conviene.
L’amore per i ghiacciai è un sentimento in offerta speciale».
Scelte drastiche pro-ambiente possono allontanare le persone dalle montagne?
«Sì, ma ci sarà sempre qualcuno che ci andrà e che ci vivrà. Il coraggio non deve più spaventare, nemmeno la politica».
I cambiamenti climatici impongono cambiamenti anche a tempi e modi di frequentare la montagna?
«Consigliano un ritorno alle origini.
Partire di notte, evitare il caldo, tornare al rifugio entro metà mattina. Prestare la massima attenzione al meteo e ai temporali. La montagna non apre quando parte la seggiovia».
Cosa la preoccupa di più nell’estate in corso?
«L’assalto del turismo non informato da chi lo sfrutta. L’Himalaya è un caso limite, ma anche le Alpi sono assediate da persone inconsapevoli di ciò che fanno. Un anno fa la Marmolada ci ha tragicamente ricordato cos’è una montagna, perché ne abbiamo bisogno: la scommessa che salire costringe a fare con la vita».