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 2023  luglio 02 Domenica calendario

Storia di Slavyk e Serhiy, due soldati

Sente ancora le mani che non ha più. Assorto nel ricordo della trincea riempita di neve sporca del suo stesso sangue, muove i monconi delle braccia per indicare a chi ascolta il punto da cui è sbucato il carro armato russo. Sferra cazzotti immaginari ai suoi aguzzini, quando il filo della memoria lo trascina di nuovo nel pozzo di disumanità che è stata la prigione dei separatisti a Donetsk. Il cuore di Slavyk si è rassegnato, il cervello no: continua a ingannarlo, facendogli percepire gli arti. Pure adesso che vuole grattarsi la testa, le sinapsi gli trasmettono la sensazione dell’articolazione del polso, del metacarpo, delle dita, e il tentativo va a vuoto di qualche centimetro. Ma quest’uomo non si deprime mai. Sorride, come a dire: tu che mi fissi con lo sguardo contrito, rilassati, non mi serve la tua compassione, mi serve solo il tempo per abituarmi a un corpo più corto. Infatti, eccolo che prende le misure e riesce strusciarsi sopra l’orecchio, scacciando insieme il prurito e la pietà dell’osservatore.
Lo spirito positivo di Slavyk ha lasciato senza parole i dottori della clinica militare che cura il corpo, la mente, gli incubi, le allucinazioni sonore, i tremori che anticipano l’insonnia e le mille forme di stress sviluppate da chi esce dalle carceri di guerra. Perché in fondo la sua non è una storia di depressione e solitudine, è la storia di un’amicizia spettacolare nata in cattività.
A Slavyk hanno amputato anche le gambe. La destra sopra al ginocchio, la sinistra a metà del polpaccio. Eppure di notte non sogna di correre o saltare, sogna le mani. Era bravo con le mani. Le infilava nel cofano delle macchine scassate e quando le tirava fuori il motore cantava che pareva nuovo. Vyacheslav Levytskyy, detto Slavyk, 40 anni, gran meccanico e abile fabbro. Poi soldato. Arruolato il 22 marzo 2022, catturato il 25 febbraio 2023, venduto ai ceceni di Kadyrov, detenuto per tre mesi a Grozny. Senza braccia, senza gambe, due buchi nella pancia. «Serhiy, mi fai fumare?».
Una storia di amicizia
Una storia di amicizia, si diceva. Concetto nobile, alto, tanto facile da toccare mentre si affronta insieme il pericolo immanente della battaglia quanto complicato da mantenere dopo, una volta in salvo, quando si tornaa casa e non si è più quelli di prima ma serve ancora aiuto. Concetto qui personificato meravigliosamente da Serhiy Potremai, 51 anni, veterano della prima guerra del Donbass, dislocato nella regione del Donetsk a gennaio di quest’anno, catturato il 24 febbraio. Un giorno prima di Slayvyk.
Ha spinto lentamente la carrozzina fino al piccolo bungalow di legno nel giardino della clinica. È una giornata tiepida, gli ex prigionieri escono all’aria aperta, fa bene all’umore. Slavyk lo ha cinto al collo con quel che gli resta delle braccia, Serhiy lo ha sollevato e lo ha messo delicatamente a sedere sulla panca. Afferra il marsupio nero che ha a tracolla, apre un pacchetto di Kozak, estrae una sigaretta, se l’accende in bocca e la appoggia alle labbra dell’altro aspettando di sentirlo inspirare una nuvola di nicotina. Serhiy è le mani e i piedi di Slavyk. Di più. Talvolta ne è anche la memoria e il sostegno alla parola. Capita che, nel racconto della prigionia vissuta insieme, uno cominci la frase e l’altro la finisca. Ancora un tiro, Serhiy. Tiene a lungo il fumo nei polmoni, espira. «Grazie amico. Dunque, dov’eravamo?».
Catturato dai separatisti
Alla trincea. «Già, la trincea… Era notte, stavo in prima linea e sono stato colpito da un carro armato e poi dai mortai. Le schegge mi hanno frantumato le gambe. E un proiettile di fucile mi ha centrato allo stomaco, trapassandomi da parte a parte». È bastato uno sguardo e Serhiy gli ha alzato la maglietta fin sopra l’ombelico per mostrare una cicatrice lunga dieci centimetri e un taglio sotto la cassa toracica. «Mi sono buttato nella trincea e sono rimasto lì per sette giorni e sette notti. Non sanguinavo molto, probabilmente perché le ferite erano bruciate e perché faceva troppo freddo. Non potevo camminare, ho dovuto strisciare da una trincea all’altra facendomi forza con le braccia. È così che mi si sono congelate le mani. Pregavo di veder arrivare i nostri soldati. Avevo l’acqua delle razioni dell’esercito e pure del cibo, sono riuscito soltanto a bere, non sentivo la fame. Sette bottiglie da un litro e mezzo. Una mattina sono comparsi i separatisti del Donetsk, stavano raccogliendo i loro cadaveri. Li ho riconosciuti dalle divise. Mi hanno visto, mi hanno caricato su un fuoristrada e trasferito in un edificio che ha, all’interno, una cella».L’amico lo segue con attenzione, chissà quante volte a Grozny lo ha sentito ripetere le fasi della sua cattura e cosa ha dovuto subire dopo. Spazza via la cenere di sigaretta cadutagli sul pantalone, e ascolta, ancora, una vicenda che conosce a memoria.
«Quando mi hanno preso avevo le mani con le dita blu e gonfie, le gambe rotte con degli squarci grossi così…». Il cervello ingannatore di Slavyk di nuovo gli fa fare con le braccia i gesti di un tempo, di quando era integro. «...e quelli invece di portarmi in ospedale hanno semplicemente applicato delle bende. Mi hanno prestato il primo soccorso e poi mi hanno pestato a sangue con una pala, frustandomi con un tondino di ferro. Assurdo. Volevano sapere la posizione delle nostre truppe e degli obici. Gli ho risposto che non lo sapevo, che quella è roba per artiglieri e io ero solo un autista. Per punizione mi hanno fatto andare da una stanza all’altra carponi sulle ginocchia. Il dolore era insopportabile. Non gli ho detto niente, neanche una parola. Si sono arrabbiati ancora di più e mi hanno sbattuto in uno scantinato buio. Non so quanto mi abbiano tenuto lì, nell’oscurità ho perso il senso del tempo. So solo che a un certo punto mi sono venuti a prelevare dicendomi che ero stato venduto ai ceceni di Kadyrov. Pronunciato quel nome, ho pensato che per me fosse davvero arrivata la fine. Invece, è successa una cosa inaspettata…».
Slavyk non sa a quanto sta la sua pelle al mercato nero dei prigionieri, e, a dirla tutta, poco gli importa.
Non è più affar suo. La compravendita dei vinti serve all’esercito di Kadyrov per avere qualcuno da scambiare con le forze armate ucraine e potersi riprendere i miliziani ceceni catturati.
Il sessantenne Oleksandr Blinov è il vice-direttore della clinica della riabilitazione, di cui si può dire che si trova in una regione centrale dell’Ucraina senza dare l’esatta ubicazione per motivi di sicurezza.
Spiega che prima dell’invasione questo posto che assomiglia a una casa di riposo lavorava solo per i militari della Guardia Nazionale, dopo il 24 febbraio 2022 è stato riadattato in fretta a camera di decompressione della psiche di chi torna dopo uno scambio di prigionieri. «Non sono autorizzato a rivelare quanti pazienti abbiamo, né se sono aumentati o diminuiti nell’ultimo periodo. Stanno qui obbligatoriamente per quindici giorni, poi una commissione medica composta da psicologi, psichiatri, fisiatri e medici generici li valuta e decide se hanno bisogno di essere sottoposti a trattamenti ulteriori con gli specialisti, se devono rimanere qui altri giorni oppure se possono andare a casa». E più di questo, da Blinov, non si scuce.
«Sono tutti classificabili come borderline, lo stadio precedente al caso psichiatrico», dicono i terapisti della riabilitazione. I soldati arrivano che hanno perso peso, alcuni anche cinquanta chili, c’è chi non è più in grado di addormentarsi, tutti fiaccati dagli effetti della sindrome post-traumatica da stress e qualcuno inseguito dai flashback delle torture e della costrizione. Sono il tormento dei liberati, i flashback. Perché non si fanno annunciare, si presentano e basta come ospiti sgraditi, penetrando la fragilità di uomini senza più un baricentro emotivo.
Dalle cartelle cliniche, reali, di pazienti che sono stati o sono tuttora in cura: un incursore dell’esercito, neanche quarant’anni, sta facendo fisioterapia alle gambe per imparare a farle andare come prima e all’improvviso avverte la sensazione fisica della corda che in prigione gli stringeva le braccia (flashback tattile); in mensa un soldato del battaglione Azov lamenta di percepire il nastro adesivo avvolto attorno alla testa e il sacchetto di plastica con cui i carcerieri lo hanno quasi soffocato, tanto realistico da avvertire dolore agli occhi pur essendo al sicuro davanti a una zuppa; un artigliere è andato in crisi perché crede di aver sentito il rumore dello scotch da imballaggio quando viene tirato e delle chiavi della cella (flashback uditivo); un comandante di battaglione stava passeggiando sul prato accanto al dormitorio dove i giardinieri hanno rasato il prato e l’odore dell’erba appena tagliata lo ha riportato al tanfo dei cadaveri carbonizzati, provocandogli un attacco di panico. Ora scambia le foglie per bombe.
Slavyk e Serhiy, dentro, non sono così rotti come gli altri perché, ed ecco la cosa inaspettata cui accennava, sono stati trattati bene dalle guardie musulmane del feroce Kadyirov. «Forse perché gli è imposto dalla loro religione, ipotizzo». I due amici sono gli unici nella clinica ad essere tornati dalla detenzione in Cecenia. «A Grozny mi hanno subito portato in ospedale, in terapia intensiva. Dopo una settimana o qualcosa di più in ostaggio dei separatisti ero senza speranze, le dita gonfie e blu, le mani infette, le gambe ormai immobili, le ferite ancora aperte e purulente, lo stomaco in fiamme. Sono stato visitato da un dottore capace e umano. Mi ha riempito di antidolorifici e antibiotici che mi hanno fatto stare meglio, mi ha fatto le trasfusioni di sangue, però una mattina è entrato nella stanza con una cartella bianca in mano e ha detto che doveva amputarmi tutto, gambe e braccia, perché ormai erano in cancrena. Ho firmato il consenso senza pensarci troppo, l’idea di poter rivedere mio figlio Dmytro e mia moglie Natalia mi ha dato coraggio. L’operazione è andata bene ma…». Pausa. La frase la termina Serhiy. «...se a Donetsk lo avessero portato subito sotto i ferri invece di picchiarlo per estorcergli informazioni che non aveva, avrebbe ancora le mani».
Le strade di Slavyk e Serhiy si incrociano adesso, quando il primo esce dall’ospedale di Grozny e il secondo viene condotto con gli altri prigionieri ucraini che Kadyrov fa tenere in un seminterrato senza finestre di una palazzina della polizia, nella periferia della capitale.«Quando l’ho visto arrivare ho capito che era necessario prendersi cura di lui, altrimenti lo avremmo perso». Ora è Serhiy a raccontare. «Eravamo 39 prigionieri ucraini e i ceceni ci hanno fatto capire immediatamente che Slavyk era sotto la nostra responsabilità, perché le guardie non avrebbero mosso un dito per lui. Quindi ho fatto ciò che andava fatto e ciò che ci insegna l’etica militare. Siamo due soldati e i soldati si aiutano sempre nelle difficoltà». Come Achille e Patroclo, ma un Patroclo mutilato. «Lo prendevo in braccio per portarlo in bagno a pisciare, lo prendevo in braccio per spostarlo dal letto sulla carrozzina, lo prendevo in braccio per fargli prendere ossigeno alzandolo fino a una grata nel soffitto. Lo facevo fumare. Muovevo per lui le pedine sulla dama, ne avevamo una. Lo imboccavo tre volte al giorno. Nell’ora d’aria facevamo a turno con gli altri a spingere la sua carrozzina. Sì, di cibo ce n’era a sufficienza, ciascuno riceveva quotidianamente una pagnotta e mezzo di pane e tre volte alla settimana il cibo era caldo e appena cotto.
Per il resto mangiavamo patate crude e gli spaghetti in scatola, ma va bene, non abbiamo sofferto la fame.
Era il paradiso in confronto al carcere nel Donbass».
Pur avendo il corpo intatto, anche Serhiy ha conosciuto la violazione dei diritti umani e della convenzione di Ginevra sul trattamento dei detenuti di guerra. L’agenzia dell’Onu da mesi denuncia abusi in corso soprattutto in Russia, ma talvolta censura anche gli ucraini. Catturato al fronte, Serhiy si è ritrovato a Donetsk in una colonia penale. «Picchiato, vessato con l’elettroshock, ammanettato al termosifone per tre settimane…». Tre frasi per riassumere la tortura.
Pronunciate rapidamente, una attaccata all’altra, così da fare in fretta e tornare a dimenticare.
Nella clinica c’è una sala con un tavolo ovale verde e una lavagna. I pazienti fanno sedute di autocoscienza di gruppo, cercano di fare uscire l’ansia, di condividerla, di esorcizzarla. Entrano uomini duri, aspri, che hanno combattuto col Reggimento Azov a Mariupol, con tatuaggi nazionalistici sulla pelle che per i carcerieri russi sono tutti, indistintamente e a prescindere, prove di nazismo, dunque meritevoli di essere cancellati versandoci sopra l’acqua a cento gradi. Ed è curioso sentir parlare un guerriero delle proprie emozioni, vederlo disegnare con tratti infantili la maschera del demone che lo affligge.
«La terapia prevede esercizi di riabilitazione in palestra, aromaterapia, massaggi, incontri con gli psicologi e con gli psichiatri», spiegano i medici. «Dipende dal livello di stress con cui entrano e che definiamo in una prima intervista, al momento dell’accettazione». I dottori aiutano gli ex prigionieri a rifare i documenti e a fissare l’appuntamento con il procuratore per testimoniare. La permanenza più o meno lunga in strutture come questa è una procedura resa obbligatoria dalle forze armate, ha lo scopo di tutelare i combattenti e riportarli al più presto sulla linea del fronte. Mogli, genitori e figli possono venire a trovarli. Non c’è moltotempo per guarire dagli attacchi di panico, né l’esercito impegnato nella controffensiva ha la pazienza di aspettare che i flashback svaniscano. «Quindici giorni di terapia, poi si vede».
Taganrog, Starioskol, Kursk, Ryazhsk: città russe diventate sinonimo delle colonie penali che ospitano, piene di soldati ucraini, da cui escono resoconti di quotidiana sopravvivenza che non sono poi così lontani dalla giornata infinita di Ivan Denisovi?. La prigionia di Slavyk e Serhiy si è conclusa il 12 giugno. «Hanno prelevato nove di noi, i feriti e quelli messi peggio. Slavyk era il primo della lista, ovviamente. Io sono rientrato nell’elenco perché i ceceni hanno capito che vivevamo in simbiosi».
Ora bisogna immaginarsi questa scena. Un punto imprecisato sul confine ucraino a nord, tra la regione di Sumy e quella russa di Belgorod. Sono le quattro del mattino, albeggia. Dal lato russo si avvicinano tre autobus e un’ambulanza, dal lato ucraino tre autobus e un’ambulanza. Dai bus scendono cento uomini in fila, dall’ambulanza scaricano la carrozzina che le guardie cecene gli hanno lasciato tenere. Al segnale di un militare, le due colonne si mettono in marcia, passando il confine contemporaneamente. Slavyk viene preso dalla sedia a rotelle cecena e messo su una sedia a rotelle ucraina.
Un letto inutilmente lungo, le coperte piegate, il tablet con cui parla in videochat con suo figlio di 14 anni (lo accende e lo programma Serhiy), il pacchetto di sigarette sul comodino, il gancio metallico per sollevarsi. Ad averci le mani. Sono le quattro e mezzo del pomeriggio. «Serhiy, mi tagli la mela?». Sorride. «Nonostante le amputazioni Slavyk è un uomo stabile, equilibrato», dice Serhiy, che sta facendo spicchi ben precisi col coltello. «Persino i ceceni lo rispettavano, erano impressionati dal fatto che non avesse perso il suo spirito pur avendo subito quello che ha subito. C’era una guardia di nome Rizvan con cui si prendevano in giro. Rizvan entrava nel seminterrato e gli diceva: “ma almeno l’organo più importante ti funziona?”, e Slavyk sghignazzava, assicurandolo che in quel settore non aveva subito menomazioni».
Serhiy non ha moglie e non ha figli. È sin troppo facile pensare che abbia proiettato nell’amico amputato, di undici anni più giovane e completamente dipendente dal volere altrui, il figlio che non ha mai avuto. «Lo considero più come un fratello, e come succede ai fratelli a volte si litiga. Piccole cose, sciocchezze, siamo esseri umani. Le sigarette, per esempio: non sono mai abbastanza e non c’è mai un momento per fumare che vada bene a entrambi».
Slavyk mastica la mela, osserva l’amico che si dà da fare per lui. I suoi occhi esprimono gratitudine silenziosa. Talvolta non c’è bisogno delle mani per abbracciare qualcuno.