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 2023  luglio 02 Domenica calendario

Intervista ad Alessandro Bergonzoni

La casa-studio di Alessandro Bergonzoni, un loft nel centro di Bologna, è pieno di cose: costumi di scena, quadri, sculture, schizzi. C’è una sola figura umana che spicca al centro: il ritratto in bianco e nero di una bambina con gli occhi che ridono.
È sua figlia?
«No, è la mia compagna quando era piccola».
Barbara Cuniberti, ormai state insieme da dodici anni. Come vi siete conosciuti?
«Per ben tre volte nella vita abbiamo frequentato lo stesso locale. Era inevitabile che ci incontrassimo, lei che ne dice?».
Le ha mai detto «ti amo»?
«No, quando mi sono proposto le lo lasciato sulla scrivania un calendario di Papa Giovanni con un biglietto che diceva: “Ti somiglia”».
E nonostante questo Barbara ha accettato di fidanzarsi con lei?
«Sì. Più di una volta le ho chiesto di spesarmi, ma lei ha detto di no».
Almeno un anello in regalo?
«No, ma una volta le ho regalato una scatolina di lusso con dentro un granello di sabbia del sud e quello era il granello di fidanzamento. Un altro anno le ho regalato un manganello di fidanzamento. Poi una foto di Raimondo Vianello. Anche un tranello: l’ho chiusa in bagno dicendole “Ecco il tuo tranello di fidanzamento”».
Deve volerle molto bene.
«Si diverte. Almeno così dice».
Nato a Bologna nel 1958, vive ancora qui. Ci si sta bene a Bologna?
«Sì, ma appartengo a tante città. Vado a Lecce e mi sembra di essere nato lì, vado a Milano e mi sento milanese».
Papà aveva una fabbrica di viti. Avrebbe voluto un figlio imprenditore?
«Sì e fece di tutto per farmi studiare Economia. Feci Giurisprudenza e mi laureai a fatica. Volevo fare l’attore, ma non quello classico, che interpreta testi di altri. All’Accademia dell’Antoniano se ne accorsero e mi bocciarono due volte. Non ero “tradizionale”, avevano ragione».
Però lei doveva pur mantenersi perché a un certo punto i suoi genitori la misero di fronte alle responsabilità.
«E infatti per un po’ di anni ho lavorato anche nell’azienda di famiglia, ho fatto il magazziniere. Mi interessava l’aspetto sociale della vita, più che quello estetico o politico. Non sapevo come conciliare il lavoro sulle parole e sull’attore con il lato umano. Così mi misi a lavorare con la Caritas e con la Croce Rossa. Ho trascorso mesi nei manicomi e nelle carceri, più che nelle sezioni di partito. Oggi Achille Occhetto mi invita alla Bolognina e mi racconta le sue rivoluzioni, ma io ho sempre cercato di essere politico a modo mio».
Com’era Bologna negli Anni Settanta?.
«Una volta sono scampato a un attentato».
Racconti.
«Lavoravo al fianco di un’associazione che aiutava gli ex carcerati a reinserirsi nella società. Per esempio, li sistemavamo nelle case. Una volta siamo andati nell’appartamento occupato da uno di questi. Mi chinai per attizzare il fuoco, quando lui mi assestò un colpo di mannaia nella parte posteriore della testa, per fortuna senza colpire il collo. Scappai via in un lago di sangue. Rividi quella persona molto tempo più tardi. Fu quasi uno shock. Anni dopo seppi che si era tolto la vita. Il mio insistere sulla pazzia, sulla morte e sull’accompagnamento alla morte nasce anche da una sensibilità maturata in quegli anni».
Non frequentava le sezioni di partito?
«Mai. Solo le osterie. L’Osteria da Vito, per dire, dove con Guccini ci ritrovavamo a cantare. All’Osteria delle Dame ci trovavo Vittorio Gassman. È stato in questi posti che ho conosciuto quello che mi permetto di considerare uno dei miei amici cari, Paolo Conte».
Umberto Eco ha detto: «Se dovessi rinascere mi piacerebbe fare quello che fa Alessandro Bergonzoni».
«Una frase che ancora adesso mi fa molto piacere, soprattutto perché detta da lui. Ci siamo frequentati, io avevo un rispetto quasi timoroso ma lui a tavola si metteva a raccontare le barzellette, ti faceva ridere. Io non so raccontare le barzellette, sono negato».
Maurizio Costanzo la voleva più spesso ospite da lui. E forse avrebbe preferito un Bergonzoni più comico?
«Lui, ma anche altri come Loretta Goggi, mi dicevano: fai più tv, ti aiuta a fare più facilmente teatro e libri. Ma in vent’anni di Costanzo Show ci sono andato solo venti volte. Poi ho smesso con la tv. Costanzo voleva che io facessi i cosiddetti sketch ma, mi dicevo, quando poi andrò in teatro non sarò più libero nelle scelte perché la gente vorrà rivedere quello che ho fatto in tv».
Non solo Umberto Eco. Ieri come oggi, lei ha numerosi estimatori trasversali: Nino Manfredi, per esempio.
«Voi giornalisti e questa mania dell’aneddoto. Va bene. Una volta Giorgio Gaber venne a un mio spettacolo. Lo invitai in camerino e mi disse: “Sarà difficile che il prossimo spettacolo possa essere all’altezza di questo”. Gufava un poco, ora che ci penso! (ride). Ovviamente scherzo, non scomodiamo i monumenti parlando di me».
Anche Nanni Moretti viene a vederla?
«Ma adesso sembra che io sia un fenomeno, non voglio dire questo, però sono felice quando questi personaggi – che io stimo, alcuni di più altri di meno – mi apprezzano. Ricordo Moretti con il biglietto in mano che aspettava composto e rigoroso sulla panchina fuori dal teatro».
Conosce Elly Schlein?
«Sì e ho anche preso parte a manifestazioni contro la guerra insieme a lei e a altri. Ecco perché non capisco come mai abbia cambiato idea sull’invio delle armi in Ucraina. Schlein mi piace ma la aspetto in terrazza, voglio vedere che cosa farà. Non credo che lei cadrà vittima della sostanza chimica che danneggia tanti politici».
Imprenditore mancato
Mio padre mi voleva imprenditore, ma dopo la laurea, nell’azienda di famiglia ho fatto il magazziniere Poi ho lavorato con la Caritas e la Croce Rossa
Perché la politica è una droga?
«Ho visto tanti cambiare testa e vita».
Carlo Rovelli si è esposto parecchio contro l’invio delle armi.
«Impeccabile. Anzi lui, con le sue competenze, avrebbe potuto fare affondi più dolorosi».
Per chi ha votato alle scorse elezioni?
«Giuseppe Conte».
Nei suoi spettacoli più recenti compaiono cenni alla cronaca, all’attualità.
«Ma perché non capiamo che è tutto collegato. Clima, armi, malattie, cibo. Bisogna fare uno screening total body del mondo e curarlo. Piangiamo per l’alluvione in Romagna – e anche noi cerchiamo di dare una mano con raccolte fondi e aste —, ma possibile che non capiamo che siamo oltre? Ci siamo già scordati della frana di Ischia? Queste cose ormai accadono ogni due o tre mesi e ancora stiamo a dire che quella del clima è soltanto “una moda”?».
Quando è stata l’ultima volta che ha pianto?
«Quando ho visto le bare di Cutro arrivare a Bologna (alcune salme delle vittime del naufragio sulle coste della Calabria sono state accolte dall’Emilia-Romagna, ndr)».
È vero che lei pratica regolarmente la meditazione?
«Sì, due volte al giorno. E, visto che stiamo tornando in zona “Intimissimi”, cioè al personale più spinto, le confesso anche che non mi sono mai ubriacato, che non ho mai assunto sostanze stupefacenti. Ho avuto solo un grande vizio nella mia vita, che è durato per anni».
Quale?
«La velocità».
In auto?
«Sì. Ho corso nelle gare specializzate, avevo anche buoni sponsor. Ma nessuno dice che la velocità arriva a essere un vizio, come il gioco d’azzardo. Non ne puoi fare a meno. Ho smesso da un pezzo».
Incidenti?
«Un paio di costole rotte,una volta sono svenuto. Cose che succedono a quei livelli».
Due figli nati nel primo matrimonio, Alice e Leonardo. Ormai sono grandi, hanno 31 e 35 anni. Con loro lei è un papà surreale?
«Intanto, quando io e mia moglie ci siamo separati i figli mi sono mancati moltissimo. Sono stato un “mammo” vero, perché io lavoravo di notte a teatro e dunque stavo spesso con loro di giorno. E mi piaceva stare con loro, fargli da mangiare. Certo, poi gli raccontavo le fiabe per svegliarsi, non per addormentarsi, perché rientravo all’alba».
Ma poveri ragazzi.
«Un giorno sono arrivato da loro e ho detto: “Ragazzi, dovete sapere che io in Svizzera ho altri due figli, Cinzio e Cinzia, che sono quindi i vostri fratelli”. Loro hanno cominciato a fare domande, volevano saperne di più. Ho sempre cercato di stimolarli con racconti un poco stralunati, ma loro sanno bene che tipo sono».
È vero che una volta ha detto loro che la mamma non sarebbe più tornata?
«Sì, ma l’ho fatto per rendere ancora più gioioso il momento in cui lei è comparsa sulla porta e li ha abbracciati».
Che tipo di follia è la sua?
«Una follia da lucidi».
La più grande paura?
«Forse quella di perdere il controllo. Ma il controllo va perso quando pensiamo ai nostri limiti, perché noi siamo molto di più di quello che vogliamo far credere a noi stessi».
Ci spiega la sua idea di «crealtà»?
«È una realtà che non voglio subire ma creare, è l’artista che crea e che sta al centro di tutto, il mio percepire e collegarmi sono opera d’arte».
Infatti lei spazia tra spettacoli, libri, sculture, film.
«Ma non è questo il vero senso della parola “arte”? Ho detto che ho paura di perdere il controllo ma non ho paura del limite. Il problema è che oggi accettiamo tante forme di pazzie: le città bloccate dal traffico, lo stare seduti per ore su una sedia, il metterci in coda per ore per andare in un posto, alcune dichiarazioni surreali dei politici. E abbiamo, però, paura dei limiti».
Che cosa la annoia?
«L’accontentarsi».