La Stampa, 2 luglio 2023
"Memoria del libro dimenticato" di Fernando Aramburu (racconto inedito)
Perché mentirvi? Non sono un libro prezioso. Almeno, non lo sono nell’aspetto materiale. La mia copertina mostra segni di logoramento; le mie pagine, bianche al principio, sono diventate gialle, mentre l’inchiostro ha cominciato a scolorire e la mia carta, insomma, lo potete verificare da soli, è di bassa qualità. Sul mio contenuto giudicheranno coloro che mi leggeranno, se a questo punto sono ancora rimasti al mondo due occhi disposti a prendersene la briga. Ignoro cosa ne sia stato dell’uomo che mi ha scritto. Sono passati tanti anni dalla data della mia pubblicazione che mi sorprenderebbe molto se fosse ancora vivo.
Mi spiace avervi deluso se da me vi aspettavate qualche altra cosa. Non sono l’editio princeps di un’opera classica né sono ornato dalla firma o da una dedica di un autore famoso. Le mie pagine non ospitano nemmeno illustrazioni o incisioni dovute al talento di un artista celebre. Sono soltanto ciò che vedete, una copia fra le tante inclusa in una collana editoriale che, quando sono uscito dalla tipografia, superava i cinquecento titoli.
Non vi nasconderò che ho ottenuto breve attenzione, trascinato dall’incessante fiumana di pubblicazioni. Non me ne lamento. Molti altri libri contemporanei hanno sofferto una sorte simile, se non peggiore. Mi resta la consolazione di aver meritato alcune recensioni su giornali e supplementi culturali, né entusiastiche né demolitrici. Perciò, dunque, un po’ di attenzione mi è stata concessa, sebbene passeggera, e c’è stato anche chi ha trovato in me dei passaggi meritori. Malgrado la scarsità di risorse economiche, l’editore ha fatto uno sforzo per pubblicizzarmi e alcuni lettori li ho avuti, sebbene non tanti da figurare nella lista dei libri più venduti. Nessuna casa editrice straniera si è accorta di me. Sarebbe un miracolo o uno scherzo se un giorno qualche studioso si degnasse di citarmi almeno in una nota a piè di pagina. A tanta accettazione, che io sappia, non sono arrivato e di certo non arriverò. Alla domanda se il mondo avrebbe sperimentato una grave mancanza nel caso che io non fossi esistito, la risposta è no. Qualcosa esprimono le mie pagine, non c’è dubbio, ma in fin dei conti nulla che non abbiano espresso altri della mia specie con più profondità, più piacevolezza e con uno stile migliore.
Sono diversi decenni che questo modesto libro che vi parla è stato collocato sullo scaffale di un piano sotterraneo della Biblioteca Nazionale, insieme a centinaia di migliaia di esemplari di ogni genere e grandezza con i quali condivide oscurità, silenzio e polvere. Di tanto in tanto si accendono le lampade. Capiamo allora che uno di noi è stato premiato con la richiesta di un visitatore della biblioteca. L’arrivo del bibliotecario è accolto con grande aspettativa dalla moltitudine di libri. Sono sicuro che tutti noi siamo assaliti dallo stesso pensiero. Il bibliotecario, starà venendo per me? Sarò io l’eletto? Sono istanti di tesa incertezza che, eccetto per il fortunato di turno, finiscono in delusione. A chi non piacerebbe essere tirato fuori dalla sua prigione oscura? Il bibliotecario, a volte una bibliotecaria, estrae uno degli innumerevoli libri, spesso servendosi di una scala; lo porta via subito tra le mani protette da guanti e, dopo un certo tempo, che può durare poche ore come lunghi giorni, lo restituisce al suo posto sullo scaffale, dove gli altri volumi muoiono dalla voglia di chiedere a quello appena tornato come gli è andata.
Penso, non foss’altro che per intrattenere le interminabili ore di quiete, di noia, di attesa di possibili lettori, a quell’uomo laborioso, amico della solitudine, che mi ha scritto. Sorgevo a poco a poco dalla sua penna stilografica, parola dopo parola, frase dopo frase, in successive cartelle che ammucchiava sul tavolo, formando una pila che via via cresceva. L’uomo si stimolava con il caffè, fumava una sigaretta dopo l’altra, succhiava caramelle alla menta e alcuni giorni abbandonava improvvisamente la scrivania, a quanto pareva disperato per la sua incapacità di progredire nel lavoro.
Tre anni di intenso fermento gli sono costati finire le duecentotredici pagine che mi compongono. In quel periodo ho conosciuto differenti versioni, precedenti a quella definitiva che il mio autore ha passato in bella con l’aiuto di una macchina per scrivere prima di affidarmi all’editore. Ho perso il conto delle aggiunte e dei tagli, dei cambi e delle correzioni, a cui sono stato sottoposto nel corso della redazione. In tipografia mi hanno abbigliato da libro, con l’illustrazione dai colori allegri che vedete qui, l’odore di carta nuova, il titolo dell’opera e il nome del mio autore in copertina, e tutto ciò mi ha fornito un’apparenza gradevole, poi maltrattata dal tempo e dalle persone, non molte, che mi hanno maneggiato.
Ignoro l’esperienza del libro che attende in libreria l’arrivo di un compratore. Scelto a caso, io sono arrivato direttamente dal magazzino dell’editore alla biblioteca. Tranne le prime settimane, quando ho occupato uno spazio nella vetrina destinata alle ultime acquisizioni, ho trascorso tutti questi decenni sul mio solito scaffale. Sarà stato undici anni fa che qualcuno mi ha richiesto per l’ultima volta. Mi è impossibile ricordare da quante persone sono stato letto. Non ho pensato di portare il conto, al contrario di altri miei compagni di scaffale, che si vantano di avere avuto cento, mille, duemila lettori. Ricordo, sì, che una persona, indebitamente, mi ha sottolineato e che altre due hanno abbandonato la lettura poco dopo averla iniziata, il che mi ha provocato una non piccola contrarietà. Forse non contengo ciò che cercavano; forse, ed è questo che mi fa più male, gli sono sembrato noioso, mal scritto o privo di interesse.
Per fortuna, non sempre è stato così. Nella mia memoria di libro dimenticato conserva piena vita il godimento lento, minuzioso, delle ore sempre più lontane in cui alcune mani sfogliavano le mie pagine alla luce del giorno o al bagliore di una lampada. Aperto, avevo offerto allora, come se fossero nettare, le mie parole agli occhi che le assorbivano, contento di significare in loro, di trasmettere chissà quali profonde emozioni, quali piaceri intellettuali. Non potete avere idea della felicità che sarebbe per me essere letto di nuovo.