La Lettura, 2 luglio 2023
Il mestiere di stroncare
Ah, i bei vecchi tempi andati in cui le stroncature erano all’ordine del giorno! Lo si sente dire sempre più spesso con toni accorati e nostalgici. Forse, non avendo mai scritto una stroncatura in vita mia, e avendone ricevute un discreto ma non esagerato numero, non sono la persona più titolata a parlarne. E tuttavia eccomi qui a pontificare con l’imbarazzo e l’imperizia del dilettante.
Partirei da qualche considerazione preliminare, dal punto di vista del lettore.
La stroncatura appartiene a quel genere di pezzi giornalistici che uno legge volentieri, talvolta persino con sinistra voluttà. In fondo, anche se ispirata da una più che legittima intransigenza artistica, per quanto asettica, ironica, condiscendente, la stroncatura è una forma di denigrazione, un esercizio retorico atto a screditare un libro, e per osmosi chi lo ha scritto, chi lo ha pubblicato, chi lo ha promosso, chi lo ha recensito positivamente, chi lo ha letto con piacere. E non occorre essere un moralista classico per capire che poche cose sono più gustose della maldicenza. Lo so, «maldicenza» è parola oltremodo scivolosa, dall’accezione fortemente negativa. Sui vocabolari dei sinonimi fa bella mostra di sé accanto a termini biechi come «calunnia» e «diffamazione». Ecco perché, in questo specifico caso, con il permesso dei lessicografi, proverei a ripristinarne la neutralità etimologica. Il maldicente di cui parlo non dev’essere per forza mosso dal risentimento, né deve perseguire finalità losche. Anzi, lo stroncatore migliore è l’anima bella che demolisce un libro dopo averlo letto. Una buona stroncatura trasuda la delusione dell’amico tradito e l’ironia del guastafeste impertinente.
Un discorso a parte meritano gli stroncatori di professione. Anche loro possono essere molto simpatici, brillanti e straordinariamente efficaci, ma alla lunga, invettiva dopo invettiva, rischiano di perdere rigore e autorevolezza. Lo stroncatore seriale è animato da una sorta di pessimismo storico. Lo stroncatore seriale vede il marcio anche dove non c’è. Lo stroncatore seriale non è mai sereno, ha sempre la bava alla bocca. Per questo, si accanisce con particolare ferocia contro i bestseller, contro i premi, contro i recensori compiacenti (li chiama «lacchè»). Il tono dello stroncatore compulsivo è insieme oracolare, bilioso e complottista. È lui contro tutti. Ciò spiega perché si sente un eroe, un uomo tutto d’un pezzo, un donchisciotte che lotta contro i mulini a vento della bieca industria culturale. Per lui la letteratura è sempre un atto di protesta, un grido di dolore, un j’accuse scagliato contro la corruzione dei costumi. Un identikit che si attaglia, è vero, a molti capolavori, ma non a tutti. Non direi che l’Eneide è un atto di protesta, che l’Orlando furioso o i Saggi sono un grido di dolore. Venendo a tempi più recenti, non definirei La montagna magica un j’accuse. Non sempre la moralità di un libro si esprime nell’indignazione. Ci sono libri magnifici pieni di comprensione umana. Ma non divaghiamo.
Uno dei vezzi più frequenti dello stroncatore seriale è opporre al libro che sta demolendo un romanzo più oscuro, prezioso, che per ora conosce solo lui ma che un giorno i posteri riscopriranno biasimando chi non è stato in grado di riconoscerlo. Ma lo sguardo dello stroncatore seriale non è rivolto solo verso l’avvenire, ma anche verso un passato edenico. Di fatto, è un nostalgico, un passatista, è sempre lì a rimpiangere i tempi in cui la letteratura aveva ancora un senso e serviva ancora a qualcosa.
Ciò che lo stroncatore seriale non dice è che stroncare, proprio in virtù di quanto abbiamo detto, è un esercizio, almeno da un punto di vista tecnico, quanto mai semplice. Non c’è capolavoro immortale che non possa essere deriso e fatto a pezzi, figurarsi un romanzo qualsiasi. Con un po’ di subdola scaltrezza, si può distruggere anche Il rosso e il nero. «Dio, come scrive male questo sedicente Monsieur Stendhal (che pseudonimo ridicolo!). Per non parlare delle volgarità, dell’enfasi e dei luoghi comuni con cui ingolfa questo librone tracagnotto che avrebbe meritato un editing draconiano e diverse sforbiciate. Come può uno scrittore degno di questo nome scrivere una frase come la seguente: “Quel rumore lo riscosse come il canto del gallo riscosse San Pietro”?».
Ma su, chi di noi non ha letto con un misto di piacere, ammirazione e fastidio le indifendibili invettive scagliate da Vladimir Nabokov contro i maggiori scrittori del suo tempo, e non solo? Lui sì che conosceva l’arte della denigrazione. Eppure, persino il buon Vlad, a forza di strombazzare a destra e manca le sue strong opinions, non si rese conto che chiunque avrebbe potuto riservare ai suoi libri il medesimo trattamento. Chissà come prese la stroncatura in cui Sartre lo liquidava come un epigono di Dostoevskij, uno scrittore che Nabokov esecrava senza continenza.
Una cosa è certa: lo stroncatore di razza deve riporre una fiducia straordinaria nell’infallibilità del suo giudizio e nella saldezza del suo gusto. È vero, oggigiorno non trova molto spazio sui giornali, nel frattempo il suo agone si è spostato sul web, sui social o su qualche rivista specializzata. Ma che non sia questo a permettergli di parlare con maggior agio e libertà. Talvolta la sua presunzione deriva dall’adesione a una qualche scuola di pensiero più o meno in voga. C’è chi deplora per partito preso i romanzi di genere non rendendosi conto che molti tra i maggiori capolavori narrativi del XIX secolo hanno adottato, non senza furbizia e volgarità, la severa struttura del giallo: da Dickens a Dostoevskij. Ci sono i fanatici dell’avanguardia che non vedono l’ora di fustigare i cosiddetti romanzi tradizionali. Per contro, ci sono i devoti delle forme classiche che guardano con sospetto chiunque indulga allo sperimentalismo. Ci sono gli alfieri dell’ideologia che deplorano i romanzieri disimpegnati, e gli esteti che guardano con sospetto i romanzi a tesi. Ci sono i formalisti che denunciano la deriva della narrativa contemporanea sempre più incline a uno stile standard, se non addirittura corrivo. Ci sono i delusi dal romanzo che auspicano forme spurie, venate di autobiografia. Ribadisco: ciò che unisce questa fiera turba di indignati è la consapevolezza di essere dalla parte della ragione.
Mi chiedo se il motivo per cui, nel mio piccolo, non ho mai sentito l’esigenza di scrivere stroncature (di solito, se un libro non mi piace smetto di leggerlo e lo sconsiglio agli amici) non derivi dalla mancanza di tempra e dalla poca fiducia in me stesso. Dove finisce la temperanza e dove comincia la viltà? E dire che ci sono parecchi grandi scrittori che non mi sono congeniali (che so, García Márquez e Thomas Bernhard) ma non mi sognerei mai di portarli alla sbarra. Per quanto riguarda gli altri, chiaramente meno dotati ancorché celebri, perché accanirsi? Inoltre, ritengo che per essere uno stroncatore bisogna avere un’idea antagonistica dell’arte e attribuire alla critica una funzione igienica e civile, un po’ come faceva il grande Sainte-Beuve. Ahimè, faccio parte della categoria degli edonisti. Sarà per questo che non do troppo peso e nessun credito a premi e classifiche. Pur capendo la loro utilità (soprattutto editoriale), non permetterò mai a una giuria o a quei buontemponi dell’Accademia svedese di dirmi cosa devo leggere.
Una questione a questo punto resta in sospeso: perché se le cose stanno come ho scritto, perché se leggerle è così piacevole e scriverle così semplice, le stroncature sono quasi scomparse, almeno dai cosiddetti giornali borghesi?
Mi pare che questa assenza possa spiegarsi con la natura confusa e promiscua di ciò che resta della cosiddetta società letteraria. Insomma, si tratta di una bieca questione di buon vicinato. Per stroncare oggi ci vuole un bel fegato. Farlo significa esporsi all’esecrazione dell’ambiente. Se fai lo scrittore, poi, rischi di passare per rancoroso, risentito, invidioso. A questo si aggiunge l’opportunismo di chi non vuole farsi nemici illustri. Prima o poi arriverà anche il tuo turno di pubblicare un romanzo. Meglio pensare alle cose proprie. Più cauto e proficuo esibirsi in un melenso peana ogni tanto. Questa pratica mi è decisamente più congeniale, anche se cerco di praticarla con la massima onestà e mai a favore di un amico.
Comunque, è un peccato. Se compilate con cura, acribia e buonafede, anche quando sono sbagliate, le stroncature possono aprire uno spazio di riflessione oltremodo fecondo. Benché animati da concezioni affatto diverse, da gusti per certi versi antitetici, come non rimpiangere le stroncature eseguite da Baldacci, Raboni e Manganelli? Come non apprezzare la prosa elegante e la perizia chirurgica del demolitore illuminato? E, a proposito di eleganza, tanto per offrire un esempio che mi sta particolarmente a cuore, come non trarre giovamento dal saggio pubblicato nell’agosto del 1947 dal grande Edmund Wilson dal titolo scioccante Un parere contrario su Kafka?
In senso stretto, non si tratta di una stroncatura. È un giudizio più complessivo sull’opera di uno dei massimi scrittori del secolo scorso che in quegli anni conosceva la definitiva consacrazione postuma. Il giudizio di Wilson non sembra pregiudiziale. È il primo ad ammettere che i più celebri racconti di Kafka non sfigurano accanto a quelli di Gogol’. A lasciarlo perplesso, se non addirittura freddo, sono i romanzi. «Con tutta l’ammirazione per Kafka», scrive, «non riesco a considerarlo un grande scrittore, e non ho mai cessato di stupirmi del fatto che tanti possano crederlo tale». E ancora: «Paragonare Kafka (...) a Joyce e Proust e persino Dante, grandi naturalisti della personalità, organizzatori dell’esperienza umana, è un errore». E se non bastasse: «La sua impotenza era quella di un uomo costituzionalmente povero di vitalità, murato dentro a una serie di prigioni che si chiudevano l’una sull’altra come scatole cinesi». Come non sussultare di fronte a giudizi così detrattivi nei confronti di uno scrittore di tale levatura? Eppure, c’è nella stroncatura di Wilson qualcosa di quasi involontariamente lungimirante. Intuisce che il problema non è Kafka, ma i suoi entusiasti scriteriati esegeti. Capisce che di questo passo nessuno tratterà più Kafka per ciò che è: uno scrittore. «Mi sembra che lo si voglia innalzare al rango di teologo e santo capace di giustificare anche ai loro occhi – o quanto meno capace di aiutarli ad accettare senza giustificare – l’avvento di un Dio banale, burocratico e incomprensibile nei cuori di uomini sensibili e angosciati». No, Wilson non ci sta: «Ma veramente dobbiamo, come pretendono i suoi ammiratori, accettare le disgrazie dei miseri eroi di Kafka come metafore della condizione umana?». Mi pare che questo controverso saggio di Wilson dimostri come talvolta per capire uno scrittore sia più utile affidarsi a un detrattore che a un ammiratore. Wilson pare consapevole, prima che altri se ne rendano conto (anni dopo lo farà anche un kafkiano di ferro come Milan Kundera), che la deriva presa dagli studi su Kafka rischia di cancellare l’opera a favore della sua figura grottescamente cristologica. In un certo senso, non stronca Kafka, ma gli studiosi che Kundera, non senza disprezzo, definisce kafkologi.
Concedetemi un’ultima notazione malinconica per rendere più completa questa incompleta divagazione su un’arte così antica e nobile. Il vero guaio è che le sole stroncature destinate a rimanere sono quelle sbagliate. Se una stroncatura si accanisce contro uno scrittore destinato a svanire dalla memoria condivisa e dal canone, è chiaro che (povera inutile stroncatura) non lascerà traccia. A che pro ricordarla? Le stroncature più longeve sono quelle rivolte a scrittori e a opere che hanno fatto la storia della letteratura. Insomma, ecco il magro destino che attende l’incauto denigratore.
Un caso di scuola, per questo molto citato, è quello di Guido Piovene. La famosa stroncatura a Italo Svevo trasuda uno sdegno tale da coinvolgere nelle sue livide spire scrittori del calibro di James Joyce e Valery Larbaud. Definire il primo «uno scadente poeta irlandese abitante a Trieste» e il secondo «uno scadente poeta di Parigi» è un atto inqualificabile di cecità critica che getta discredito solo su chi ha osato compierlo. È un esempio di ciò che uno stroncatore serio non dovrebbe mai fare (e che troppo spesso fa): perdere le staffe, sparare nel mucchio, lasciarsi andare ai propri demoni. La stroncatura è un’arte giapponese che esige da chi la esercita un cuore caldo e una testa fredda.
P.S. Ho scritto di non aver mai fatto una stroncatura. Non è vero. Venti anni fa dalle colonne di «Nuovi Argomenti» stroncai Le correzioni di Jonathan Franzen. Certe volte mi chiedo se un giorno non sarò ricordato solo per questo.