Avvenire, 1 luglio 2023
Camon ricorda Roversi
C’è un personaggio che è stato importante nella mia vita, mi ha insegnato come deve comportarsi uno scrittore, uno che fa una rivista, che tiene lezioni. Adesso che è morto di lui non si parla più, ma una volta contava. E quel che mi ha insegnato vale ancora. Perciò non lo dimentico. Dirigeva, stampava e diffondeva una rivista di ricerca letteraria, ma dire “stampava” è esagerato, perché stampare costa e lui evitava i costi, preferiva ciclostilare i fascicoli, e a chi li richiedeva glieli mandava al prezzo del puro costo. La rivista si chiamava Rendiconti. E Andrea Zanzotto, che veniva spesso a casa mia da Pieve di Soligo con la sua Volkswagen Maggiolino, vedendo sul mio tavolo quella rivista Rendiconti, faceva dell’ironia: «Quanta superbia c’è in questo titolo!», «Perché?», «Perché significa che gli altri “cantano”, mentre noi facciamo i conti». Sì, c’era anche questo senso, nel titolo e nel programma di quella rivista duramente marxista, ma certo Zanzotto non era il più indicato a lamentarsene, con la sua poesia che voleva applicare la psicanalisi senza sapere cos’è, senza averla mai sperimentata.
Zanzotto veniva spesso da me e si fermava a mangiare, anche fuori orario: apriva il frigo, guardava cosa c’era, tirava fuori un minestrone e lo riscaldava, condiva un’insalata con olio e aceto e ce la tuffava dentro, infilzandola poi a forchettate. L’insalata dentro la minestra! Un barbaro. Parlava sempre di psicanalisi. Credeva di sapere cos’è perché l’aveva letta sui libri, ma non l’aveva veramente sperimentata, aveva fatto 5-6 sedute da uno psicanalista di Padova “selvaggio”, cioè cresciuto fuori della Società. Gli dicevo: «Andrea, la psicanalisi è un cibo, se hai fame devi mangiare, non serve a niente leggere i menù». Ma lui continuava a leggere un menù dopo l’altro, e dopo averli letti ne commentava i gusti come se li avesse mangiati.
Zanzotto non era un poeta della psicanalisi, come tutti dicono. Non faceva poesia sulla psicanalisi, sulla psicanalisi faceva linguistica. E su Rendiconti aveva torto: perché alla critica stilistica di Cesare Segre e Maria Corti, Rendiconti opponeva una critica attenta ai contenuti, alle cose, ai fatti oltre che ai sentimenti. A me Rendiconti ha insegnato molto. Ci ho anche scritto. Qualche volta, quando un fascicolo era pronto, Roberto Roversi veniva a portarmelo a casa, da Bologna a Padova, guidando il suo Maggiolino e poi restando qui a mangiare da qualche parte. Aveva capito subito che mia moglie odia gli ospiti che s’intrufolano a pranzo di straforo, perciò preferiva portarmi lui a mangiar fuori da qualche parte. “Da qualche parte” significa in qualche pizzeria. Questa è una città universitaria, piena di studenti e perciò di pizzerie. Roversi ordinava una pizza tagliata in due, metà per sé e metà per me.
Ho conosciuto un altro, più tardi, che m’invitava in pizzeria e ordinava una pizza per due, ed era il prete della parrocchia dei Sassi a Matera. Il prete di Matera ospitava una piccola comunità di ragazzini per i quali la famiglia non aveva cibo, e che dunque mangiavano da lui. Offrire mezza pizza invece che una a ciascun ragazzo era un bel risparmio. E io, vedendo che anche gli altri ospiti ricevevano mezza pizza, mi sentivo trattato adeguatamente. A Matera ho saputo che era stato ospite a pranzo dallo stesso prete Mel Gibson, che era andato là per girare il film sulla passione di Cristo. Mel Gibson si era autoinvitato a pranzo dal prete e di fronte alla mezza pizza non aveva trovato nulla da eccepire. Su qualcos’altro aveva eccepito, e visto che siamo in tema lo dico: Gibson voleva un incontro con un prete cattolico per fargli una domanda, e cioè: «Cos’ha detto esattamente Cristo quando ha istituito la comunione?». Il prete rispondeva: «Questa è la mia carne e questo è il mio sangue, offerti a voi e a tutti». Su quel “tutti” Gibson si scatenava: «No! No! No! Non ha detto a tutti, ha detto solo “a molti”!». Anche a Matera sfogò questa collera. Perché Gibson riteneva che con le sue ultime parole Cristo non voleva salvare tutti ma solo molti, escludendo gli ebrei perché erano quelli che lo uccidevano. Ho visto il film di Gibson, e l’ho trovato un film sadico. C’è una certa voluttà nelle frustate sul corpo di Cristo, infierendo su quel corpo Gibson infierisce sui fustigatori, li maledice e li danna. La perfetta preghiera di Mel Gibson è il Dies irae, «cum vix iustus sit securus». Che peccato che con Roversi non si potesse parlare di queste cose! Roversi era un comunista materialista, e Rendiconti scrutava le miserie materiali di questa vita terrena senza mai un lampo di luce sopra questa vita o di fuori o davanti o dopo. Roversi era un comunista romagnolo, duro e puro, mentre io sono un veneto. Esistono i comunisti veneti, ma sono impuri. Il comunista romagnolo se gli dai il comunismo gli dai tutto quello di cui ha bisogno, si ferma lì. Il comunista veneto non c’è nulla che possa acquietarlo. Ho sentito una volta un dirigente comunista veneto in un pubblico discorso uscire con questa esclamazione: «Noi siamo su questa Terra, ma non siamo di questa Terra». Lo applaudirono a scroscio. A mio parere, tutti quelli che eran d’accordo eran marxisticamente eretici, da espellere dal Pci. Rendiconti era una rivista attenta a che cos’è il marxismo, cosa cerca e cosa trova, ma non a che cosa può integrare la sua ricerca. In quegli anni i nostri fratelli francesi facevano un grande balzo in avanti: inventavano e usavano quelle che loro chiamavano «le nuove scienze umane», prima fra tutte la psicanalisi, e poi l’antropologia e l’etologia, che integravano la ricerca del marxismo per spiegare cos’è l’uomo, come funziona, come si può aiutare la sua riuscita e la sua felicità. Da noi l’unico aiuto al marxismo per la comprensione del mondo umano è venuto dall’estetica, della quale si era subito impossessato l’idealismo (Benedetto Croce soprattutto), e che dunque con l’idealismo prese un indirizzo diverso e opposto al marxismo. Roversi gestiva a Bologna una libreria antiquaria efficientissima, si chiamava “Palmaverde”, me ne sono servito anch’io, mi ha trovato un paio di numeri che mi mancavano della rivista Il Menabò, fondata e diretta da Vittorini. In quell’epoca cresceva il mito di Pasolini: ideologico e passionale, stava diventando il leader della giovane generazione, e c’era chi lo combatteva per questo, Franco Fortini, per esempio. Fortini scriveva per i giovani. Voleva essere lui il loro Maestro. A vedersi scavalcato da Pasolini soffriva terribilmente, e allora commetteva un errore: attaccava Pasolini per la sua “impurità” ideologica. I giovani che seguivano Pasolini sapevano benissimo che era ideologicamente impuro, però se ne fregavano: cercavano in lui la passione, non la coerenza. Volevano essere storditi, non istruiti. Gli attacchi di Fortini erano feroci. Roversi soffriva per questa battaglia di una sinistra contro un’altra sinistra, capiva bene che era anche una questione di rivalità. Fortini soffriva la crescente “grandezza” di Pasolini e voleva stopparlo. Roversi scese in campo tra la sorpresa di tutti e denunciò questa battaglia che fingeva di essere ideologica mentre era personalistica. Secondo Roversi, e secondo i più, quelli che da sinistra odiavano Pasolini non era perché fosse incoerente ma perché era grande. «Lascia stare la sua grandezza – scrisse Roversi, rivolgendosi a Fortini –, è sua, non tua, non nostra; cerca la tua, che sarà tua, non sua, non nostra». Ricorderò sempre Roversi per queste parole, schiette e violente. È per queste parole che lo considero importante, e che ne parlo qui. Aveva ragione. Io mi schierai con Roversi e lo scrissi.
Una mattina presto sento squillare il telefono, era Fortini, poiché non mi chiamava mai risposi inquieto, ma lui dopo tre-quattro parole scoppiò a piangere, gli chiesi perché, e rispose: «Se lo sapessi, se lo sapessi!». C’era un nodo nevrotico che stringeva il duo Pasolini-Fortini, e Roversi aveva capito qual era la soluzione: ognuno doveva puntare sulla propria gloria, e accontentarsene. Fra i tre, Roversi era il più lucido. Sempre stato. Era la sua grandezza e il suo limite. Dava l’impressione che lui “si diceva” perché poteva dirsi, era dicibile. Pasolini no. C’è un abisso in Pasolini, se lo vedi ti spaventi e ti ritiri. Lui c’è caduto dentro. Quando uscì il film Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini tutti corremmo a vederlo, e poi ci telefonammo. Fortini confessò di non aver retto il film fino alla fine, a metà aveva dovuto scappare dalla sala, sopraffatto dall’angoscia. Tutti abbiamo capito allora che quello di Pasolini su Gesù era il film di un credente cattolico disperato, che per una stortura della vita combatteva dall’altra parte. Quanto avrei voluto parlare con Roversi di queste cose! Erano le nostre cose, il nostro mondo. Ma un inconfessabile pudore ci bloccava. Invadere la sfera religiosa dell’altro ci sembrava una rozza violenza, indelicata e incivile, come invadere la sua sfera sessuale. Con Pasolini non si poteva. L’omosessualità di Pasolini ci bloccava tutti. Guardavo Roversi seduto davanti a me in pizzeria, lo ascoltavo mentre chiedeva «una pizza tagliata in due», e alla domanda «vino o birra» rispondeva «acqua».