il Giornale, 1 luglio 2023
La battaglia del pastificio
Il primo a cadere è il sergente maggiore Stefano Paolicchi. È alla testa degli incursori del Reggimento Col Moschin incaricati di stanare i miliziani somali che bloccano una colonna italiana inchiodata dal fuoco di kalashnikov e mitragliatrici. Alle 09.30 mentre dà l’assalto a una postazione di mitragliatrice una pallottola gli s’infila sotto il giubbotto anti-proiettile all’altezza della milza. Il sergente sputa sangue, ma non molla, continua a sparare, tira fuori una bomba a mano e con un ultimo balzo fa saltare il nemico che l’ha colpito. Alle 10.35 è l’ora del 21enne Paracadutista Pasquale Baccaro. Mentre è in piedi dietro la mitragliatrice del suo blindato un razzo anticarro lo colpisce alla gamba sinistra tranciandogliela di netto. Morirà dissanguato poco dopo. L’ultimo ad andarsene alle 11.45 è il sottotenente Andrea Millevoi. Il 21enne ufficiale, capo equipaggio di un blindato Centauro dell’8° Reggimento Lancieri di Montebello viene centrato da una raffica al capo mentre si sporge per coordinare l’avanzate della colonna. Ma accanto a quei tre cadaveri adagiati sulle lamiere dei blindati in ritirata tra barricate, nidi di mitragliatrici, postazioni di cecchini e il fumo acre di copertoni in fiamme vi sono almeno 22 soldati italiani gravemente feriti. La mattina del 2 luglio di 30 anni fa quello scenario da incubo fa da cornice agli scontri di check point Pasta a Mogadiscio, la prima crudele battaglia affrontata dai nostri soldati dopo il 1945. Una giornata di sangue e morte che scatena gli attacchi al governo di Azeglio Ciampi, un quadripartito Psi-Dc-Psdi-Pli ultimo scampolo di una Prima Repubblica al crepuscolo. Mentre la stampa ricorda come il contingente Italfor-Ibis sia formato in buona parte da soldati di leva le opposizioni contestano le finalità di una missione umanitaria a guida Onu trasformata dagli Stati Uniti in una caccia aperta al signore della guerra Mohammed Farah Hassan detto Aidid, ovvero «il Vittorioso». Altri puntano invece il dito contro il generale della Folgore Bruno Loi, comandante della missione Ibis, e i vertici militari accusati di aver esitato nell’ordinare l’impiego di carri armati ed elicotteri. Per capire su cosa s’innesti l’intreccio di rabbia, sangue e dolore generato dalla battagli del Pastificio, un ex-stabilimento Barilla in rovina occupato dai miliziani somali, bisogna considerare il disorientamento dell’ Italia del tempo. Un’Italia spazzata dalla bufera di Mani Pulite ritrovatasi, un mese prima, a far i conti con la strage di via dei Georgofili a Firenze. Insomma un’Italia a pezzi chiamata ad affrontare, per la prima volta dal 1945, il fantasma di una guerra che 48 anni di governi democristiani hanno fatto di tutto per tener lontano dal quotidiano degli italiani. Una guerra riesplosa all’interno di un ex-colonia che la cacciata del dittatore Siad Barre ha trasformato in una terra senza legge dove i signori della guerra si contendono armi, uomini ed aiuti umanitari. Il problema è come spegnere le fiamme di quell’inferno. Per gli americani la ricetta è semplice. Il nemico si chiama Aidid e per risolvere il problema Somalia bisogna ucciderlo o catturalo. Anche a costo di inimicarsi la popolazione che lo sorregge. Per l’Italia, seconda forza in campo nel caos somalo, vanno privilegiati dialogo e aiuti alle popolazioni civili. Ma all’interno della coalizione militare dell’Onu il comando spetta a Washington e Roma stenta a far sentire la propria voce. Anche per questo, trent’anni dopo, resta un mistero quale fosse il vero obbiettivo di «Canguro 11» la missione lanciata all’alba del 2 luglio da oltre 500 dei nostri soldati accompagnati da 400 poliziotti somali fedeli ad Ali Mahdi, il leader somalo rivale di Aidid. Di certo quei 400 poliziotti mandati a perquisire le case di Haliwaa, un quartiere di Mogadiscio nord fedele ad Aidid, non sono un bel biglietto da visita. E a peggiorare le cose s’aggiunge il sospetto che gli italiani siano lì non solo per sequestrare delle armi, ma per metter le manette all’imprendibile Aidid segnalato da qualche notte in quel quartiere. Una voce rafforzata dalla virulenza degli scontri iniziati sin dalle prime luci del giorno e alimentati da centinaia di donne con in braccio i figli neonati, ma pronte a sommergere di pietre i nostri soldati. Il tutto mentre dalle seconde e terze file e dai caseggiati circostanti partono le raffiche di kalashnikov, i lanci di granate e le imboscate ai nostri blindati bersagliati dai colpi dei razzi anticarro. Una battaglia che, nonostante il ripiegamento ordinato da Loi già alle otto di mattina, non s’arresta, ma vede l’arrivo di centinaia di miliziani decisi a bloccare le colonne italiane in ritirata e dare l’assalto ai militari nascosti tra i mezzi. Il tutto mentre gli elicotteri Mangusta e i carri armati M 60 attendono per tre ore l’ordine di aprire il fuoco sul nemico. «Ci sono dei limiti – si giustificherà il comandante Loi – anche al potere del comandante che deve tutelare la vita dei propri uomini... e non può farlo a qualsiasi costo». Limiti con cui faranno i conti anche gli americani quando, tre mesi dopo, le immagini dei cadaveri dei soldati statunitensi trascinati per le strade di Mogadiscio costringeranno Bill Clinton a chiudere la missione Unisom e abbandonare la Somalia al proprio destino.
•
«Di quel giorno ho ricordi lucidi, distinti. Rammento tutto dall’inizio dell’ operazione all’ imboscata... ma quello che non potrò mai scordare è di non essere riuscito a salvare Pasquale Baccaro. Quello me lo porto dentro...». Trent’anni dopo la battaglia del Pastificio Gianfranco Paglia, all’epoca 22enne tenente al comando di un plotone del 186° reggimento Folgore, non ha ancora fatto i conti con la tragedia. Per lui e i suoi uomini le porte dell’inferno si aprono quando un razzo anticarro colpisce uno dei blindati della Compagnia Diavoli Neri. Il razzo trancia di netto la gamba di Pasquale Baccaro, le schegge dilaniano l’addome del sergente maggiore Giampiero Monti e la mano del paracadutista Massimiliano Zaniolo. Circondato e bersagliato dal nemico Paglia coordina la difesa per permettere l’evacuazione dei feriti . Ma la disperata difesa, premiata poi con una medaglia d’oro, gli costa cara. Colpito da tre proiettili resta su una sedia a rotelle, ma non abbandona esercito e divisa. Oggi, promosso tenente colonnello, è il simbolo vivente di una battaglia combattuta in gran parte da giovani di leva. «Quei giovani sono stati eccezionali, sono riusciti a superare tutti i propri limiti trasformandosi da ragazzi in veri combattenti». Dissero che non si poteva andare in Somalia con la leva «In verità eravamo ben addestrati. E non parlo solo della mia compagnia. Con noi della Folgore c’erano anche carristi e lancieri. E tutti mostrarono coraggio e determinazione. Certo con la fine della leva obbligatoria è cambiato tutto, ma quella battaglia segna comunque una svolta decisiva per l’esercito e il Paese. Mi dispiace solo che a trent’anni di distanza non ci sia ancora la possibilità di tornare a Mogadiscio». Ma se la Somalia di oggi è la stessa di trent’anni fa a cos’è servito quel sacrificio? «Questa è una domanda che non è giusto porsi. Da altre parti come in Bosnia, Kosovo e Libano le nostre missioni hanno contribuito a mantenere la pace. In Somalia, Afghanistan e Iraq è andata meno bene. Ma la domanda giusta da porsi è se non siamo andati via troppo presto. Mogadiscio l’abbiamo abbandonata dopo due anni e mezzo per tornarci dopo venti. Missioni e guerre non si fanno con le date di scadenza. Se intervieni devi andare fino in fondo». L’opinione pubblica come vi accolse? «Di quei giorni ricordo solo la solidarietà dei familiari e degli amici. Solo dopo la strage di Nasiriya, dieci anni più tardi, ho avuto la sensazione di un società decisamente cambiata. Una società finalmente pronta a riconoscere il sacrificio e l’impegno dei nostri soldati». Qualcuno accusò i comandi dell’epoca per il ritardato l’impiego di elicotteri e armi pesanti «Carri ed elicotteri aprirono il fuoco dopo tre ore, quando iniziarono a tirarci con i mortai, ma non penso sia stato un errore. Inizialmente i miliziani si facevano scudo dietro donne e bambini. Sparando avremmo fatto una strage». A chi non è tornato cosa direbbe? «Solo grazie. Siete l’onore del Paese». GMic