La Stampa, 1 luglio 2023
La diplomazia globale Papa
Forse nessuno al mondo è tanto esposto alla pubblica attenzione quanto papa Francesco, in particolare mentre sull’Europa soffiano venti di guerra. Eppure forse la novità e la portata del suo messaggio non ci sono ancora completamente chiare. I suoi appelli alla pace vengono facilmente fraintesi, come ripetessero il vano appello di Benedetto XV (1917) contro l’«inutile strage» della Prima guerra mondiale. Per non dire di chi cerca nelle parole del papa argentino l’intenzione di parteggiare per la Russia, o di non appoggiare abbastanza l’Ucraina.
Banalizzazioni così grossolane sono a loro modo rivelatrici. Anche per chi è in buona fede è difficile cogliere l’essenziale: con papa Bergoglio è giunto a piena maturazione il processo di transizione dell’istituzione-papato da ierocrazia arroccata entro una sovranità regionale (la Chiesa di Pio IX) al libero esercizio della diplomazia globale. Il pensiero di Francesco presuppone una nuova concezione della sua missione pastorale, che con piena coscienza parla in primis ai cattolici (di gran lunga la più numerosa tra le confessioni cristiane), ma entro uno scenario che si propone di raggiungere ogni più remoto angolo del mondo.
In un libro ricco e penetrante di Daniele Menozzi (Il papato di Francesco in prospettiva storica, Morcelliana) troviamo la principale chiave di lettura: per questo Papa «non si tratta di leggere la storia attraverso gli schemi culturali del passato», ma di «trarre una migliore e diversa intelligenza del Vangelo dall’incessante divenire delle vicende umane». Di qui l’insistenza di Francesco sui «segni dei tempi»: anziché sentirsene assediata, la Chiesa deve saperli cogliere, lasciarsene orientare in una rilettura del Vangelo che emerga anche dalla realtà storica presente. «Non è il Vangelo che cambia, siamo noi che nel corso del tempo giungiamo a comprenderne meglio il significato». Già Giovanni XXIII aveva articolato un simile pensiero, di cui non può sfuggire un’importante implicazione: tutte le interpretazioni della Scrittura sono storicamente determinate.
Fra i «segni dei tempi» che improntano la predicazione di Francesco, ricordiamone qui solo due: l’emergenza ecologica e la guerra. Secondo uno dei testi fondativi del pensiero ecologico, la celebre conferenza di Lynn White jr. sulle Radici culturali della nostra crisi ecologica (1966), la devastazione del mondo da parte dell’uomo risulta dalla convergenza di un pensiero proprio del cristianesimo occidentale (l’uomo è padrone della natura) e della cieca «fede baconiana che identifica conoscenza scientifica e dominio tecnologico della natura». White imputava dunque in gran parte alla religione la crisi del rapporto fra uomo e natura, eppure indicava l’unica possibile soluzione di questo secolare conflitto in una nuova religiosità, quella di san Francesco d’Assisi, «il più grande radicale della storia cristiana dopo lo stesso Gesù». Troppo facile riscontrare le consonanze con l’enciclica Laudato si’ (2015), dove trovano eco sonora altri temi del nostro tempo: la crescita delle megalopoli, la privatizzazione degli spazi, la segregazione delle classi sociali e la formazione di ghetti urbani. Ispirata dal Vangelo, l’enciclica è in piena sintonia con i «segni dei tempi», con l’orologio dei movimenti ecologici. Segnala che «un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale», e che «il grido della terra» si confonde con «il grido dei poveri». È orientata su un asse religioso, ma al tempo stesso secondo coordinate etico-politiche. Non parla solo ai cattolici, ma a tutti gli umani.
Lo stesso deve dirsi dell’atteggiamento di Francesco di fronte alla guerra, che la drammatica invasione russa dell’Ucraina ha reso di bruciante attualità. Il Papa ha respinto in linea di principio ogni idea di “guerra giusta”, che una parte delle chiese ortodosse ha invece continuato a sbandierare. Ha fatto balenare sulla scena del mondo lo spettro di «una terza guerra mondiale a pezzi». Ha ripreso l’insegnamento di Giovanni XXIII, secondo cui la minaccia delle armi atomiche costringe l’umanità a ripensare qualsiasi forma di guerra, ponendosi la pace come solo obiettivo. Ha superato le esitazioni o ambiguità dei suoi predecessori (e dello stesso Concilio Vaticano II) e nell’enciclica Fratelli tutti ha rigettato ogni forma di guerra «santa» o «giusta». Anche di fronte all’aggressione di un Paese (la Russia) contro un altro (l’Ucraina) non si è stancato di proclamare la necessità di avviare negoziati, stabilire tregue, cercare un terreno d’incontro, quanto meno umanitario. Ha compiuto un gesto di umiltà senza precedenti, recandosi presso l’ambasciatore russo anziché convocarlo in Vaticano, con ciò mostrando che la causa della pace merita sacrifici. Ha inviato in Ucraina e poi in Russia un proprio messo, il card. Zuppi, nell’intenzione di favorire almeno l’inizio di un dialogo senza il quale nessuna pace potrà esservi mai. Ha rilanciato e precisato «l’istanza evangelica della non-violenza attiva» (così Menozzi). Ha letto alla luce del Vangelo «i segni dei tempi», la spada di Damocle di una catastrofe nucleare tutt’altro che impossibile, anche per le fratture e i conflitti che, come si è visto nel tentativo di Prigozhin, si aprono dentro la Russia stessa, sfiorando pericolosamente gli arsenali nucleari.
Ma c’è un altro «segno dei tempi» che siamo chiamati a leggere, con piena responsabilità di cittadini. Se il Papa invita in ogni modo le parti in guerra al dialogo e al negoziato, in nome del Vangelo ma anche di una laica concezione della diplomazia, perché queste sue calorose invocazioni vengono talora scambiate per posizioni filo-russe, o perfino ignorate o marginalizzate dai media? Si è forse mai vista una guerra che si chiuda senza un qualche accordo fra le parti belligeranti? Perché in un Paese, l’Italia, la cui Costituzione senza mezzi termini «ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» (art. 11), gli accorati appelli del Papa per la pace vengono presi come segni di debolezza? Perché la minaccia delle armi atomiche, che tanto angoscia questo pontefice venuto da lontano, non spaventa altrettanto tutti noi? A tutte le guerre (anche a questa) si attagliano le parole di Cesare Pavese (1950): «Ogni guerra è guerra civile. Ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione»