Tuttolibri, 1 luglio 2023
Su "Free Love" di Tessa Hadley (Bompiani)
Siamo in pieni anni Sessanta e Free Love è il giusto titolo per questo romanzo brillante e pieno di grazia. Un inno all’amore e alla libertà, ma anche alla scoperta di se stessi, con sullo sfondo la swinging London della contestazione, della musica e delle droghe libere, dei concerti e dei quartieri in piena trasformazione, dove le vecchie costruzioni fanno posto a nuove strade e si preparano a entrare nel futuro. Cosa accadrà alla famiglia di Phyllis? La sua scelta avrà conseguenze per tutti: Colette la figlia maggiore che ama leggere ed è pronta a ribellarsi; Hugh il bambino bellissimo che sta per entrare nel collegio maschile dove verrà plasmato a seguire le orme del padre; Roger il marito che sembra così rispettabile ma ha un segreto nel passato.
Phyllis e Nicky ci portano nel mondo dei sogni e delle possibilità. Free Love ha un bel ritmo e solo a un terzo dalla fine arriva il colpo di scena, veramente inaspettato, che cambierà di nuovo le vite di tutti i personaggi, ma soprattutto la prospettiva da cui guardare i fatti, senza dare giudizi troppo affrettati e sciatti.
Tessa Hadley non immaginava di fare la scrittrice. O forse sì, perché scrittori si nasce. Ma non aveva mai osato pensare di poterlo diventare davvero. Così la sua è stata fino a una certa età la vita di una tipica madre inglese di famiglia borghese, che ha cresciuto tre figli e tre figliastri, tutti maschi, in una casa dove ci immaginiamo il caos, tra lavatrici, accompagnamenti, spesa, cucina e quanto altro è possibile intuire. Nata a Bristol, suo padre Geoff Nichols gestiva un negozio di musica ed era un trombettista jazz con una band di successo del West Country. Mary, la madre di Hadley, era una sarta e un’artista dilettante. Tessa ha studiato letteratura inglese a Cambridge e a 23 anni si è sposata con il suo tutor Eric Hadley e ha avuto il suo primo figlio un anno dopo, «ridicolmente giovane». Ma sotto la cenere di questa casalinghitudine britannica, sommersa sotto le mutande da lavare di questa enorme famiglia, c’era della brace. Pensava di non volere una carriera sua, che la casa fosse il suo confine e anche il suo alibi per non mettersi alla prova. Poi a quasi quarant’anni, la brace ha preso fuoco. Ha iniziato a scrivere. Ma ce ne sono voluti ancora molti prima di arrivare a dove siamo ora, che di anni ne ha 63 ed è considerata una delle voci più importanti della letteratura britannica. Una carriera iniziata tutta in salita con molte porte chiuse.
Partiamo proprio da qui, dai manoscritti rifiutati.
«È passato così tanto tempo e li ho sepolti da qualche parte nel mio subconscio che non riesco neppure a ricordare bene. Credo di averne finiti tre. E forse uno è rimasto incompiuto».
Perché scriveva?
«Avevo una gran voglia di scrivere e l’ho sempre avuta. Fin da bambina immaginavo storie e per me era una magia preziosa, seconda solo alla lettura. La verità è che cercavo di riprodurre i libri degli altri. Gli adorabili grandi scrittori che ammiravo ma che non erano affatto come me».
Erano davvero così brutti?
«Erano deboli. E poi non sapevo nulla di editoria. Non vengo da una famiglia di scrittori. In realtà mio zio è un drammaturgo, ma è un mondo talmente diverso. Non conoscevo editori e agenti, e mandavo questi brutti romanzi a qualche casa editrice che li rifiutava. In verità sono felice di non aver pubblicato quei libri. Perché non lo erano. Non erano quello che avevo bisogno di scrivere. E non erano la vera me».
Che fine hanno fatto?
«Non li ho più. La maggior parte erano realizzati con una macchina da scrivere e sono finiti nella spazzatura. Non erano stupidi, perché non sono stupida. Non c’era la scintilla vitale che porta una storia o un romanzo alla vita».
Il suo primo romanzo viene pubblicato nel 2000 quando lei ha 46 anni. Come è andata?
«Ero così infelice con questi romanzi falliti. La vita di chi scrive romanzi falliti è una vita squallida. Ho pensato di fare un’ultima prova prima di smettere. Mi sono iscritta a una scuola. Non è che chiunque possa insegnare a uno scrittore a scrivere. Ma puoi stare in un ambiente dove sei stimolato, in parte dal confronto con gli altri. Non solo, hai anche una sorta di risposta editoriale. E hai un pubblico: scrivere per quelle otto persone che giovedì guarderanno il tuo lavoro è molto meglio che farlo per un’astrazione nel vuoto».
Lì è nato il primo vero libro?
«Non ho pubblicato il libro cui ho lavorato durante il corso, sotto sotto avevo ancora paura di fallire. Quindi ho fatto un dottorato di ricerca. Sono sempre stata molto sicura delle mie opinioni sui libri degli altri, il che è molto diverso dallo scriverne di propri. Lì ho studiato i testi degli altri. Ecco come leggere questa frase o questo capitolo o questo libro. In quel periodo, ho iniziato a produrre le prime cose buone. E poi le ho mostrate a un collega, che era uno scrittore. Ha portato il mio libro al suo agente e lei lo ha accettato subito. E poi l’ha venduto a Jonathan Cape, che è una bella casa editrice. Questo, dopo tutti quegli anni di miserie, è stata una sorta di beatitudine improvvisa».
È la dedizione che porta al successo?
«La mia carriera di romanziere è stata molto all’antica. Spesso la gente dice che o hai un grande successo o non verrai pubblicato, non c’è una via di mezzo. In realtà, credo di aver guadagnato lettori con ogni libro. Il mio primo è stato selezionato per il Guardian First Book Award. Ha avuto delle belle recensioni, ma niente di più. E poi il secondo, la gente lo ha notato, e poi il terzo, e così via. Il mio è una specie di percorso lento, costante, migliorato ad ogni libro. È una cosa che consiglio».
Cosa l’ha spinta a non mollare tutto prima?
«Una sorta di follia, perché è terribile provare qualcosa e fallire. Non solo una volta in un apprendistato, ma più volte. E aveva questo straordinario desiderio di scrivere. Ovviamente non importa a nessun altro sulla terra se pubblichi un libro o no. Ma da qualche parte mi sembrava che la mia vita non fosse del tutto compiuta. Non è strano? Non so perché alcune persone siano fatte così. Ma è così che mi sentivo. A ogni rifiuto pensavo: basta. Non fa per me, devo fare l’infermiera, l’insegnante o qualcos’altro. E poi, dopo un po’, il pensiero tornava. Ah, che ne dici di questo? È una buona idea. Sarebbe un buon libro. E ricominciavo».
La sua è una storia alla Martin Eden. Dopo tanti rifiuti hai vinto premi letterari e la definiscono “una delle migliori scrittrici inglesi contemporanee”. Ora lei viene paragonata a tante grandi: da Virginia Woolf alla “risposta britannica ad Alice Munro e Anne Tyler”. Non le viene da ridere, dopo tutto quello che ha passato?
«Adoro tutte le autrici che ha appena nominato. Alice Munro è stata molto imporrante negli anni del mio “apprendistato”. Anzi, direi che mi ha decisamente aiutato a trovare la voce. Ma in realtà non credo di amare tutto ciò che ha firmato Alice Munro, non penso di essere molto simile a lei, ma di scrivere una prosa molto più densa. Mi ha influenzato soprattutto la meravigliosa anglo-irlandese della metà Novecento, Elizabeth Bowen. E anche Anita Brookner. Fanno parte della mia cerchia intima, ma alla fine gli scrittori non si assomigliano nemmeno. È come per le facce: se si riesce a portare sulla pagina la verità di se stessi, questa sarà unica come un volto. È una persona che vede il mondo in quel modo».
Perché lei si concentra in particolare sulla vita delle donne e sul loro ruolo nella società?
«Perché sono una donna. Non che non mi interessino gli uomini. Ma so meglio come ci si sente a guardare dall’interno. Credo che scriverò sempre più uomini, perché sto acquisendo fiducia. Forse man mano che si invecchia non ci sono più le tensioni di prima e diventa più facile vedere le cose dalla prospettiva di un uomo. Al centro del prossimo libro c’è un uomo sulla quarantina».
Il suo primo romanzo, “Accidents in the Home”, del 2002, contrappone la vita coniugale a un’affascinante carriera di modella londinese e tratta temi come l’adulterio, la maternità, la frustrazione. Nell’ultimo, “Free Love”, il tema è simile. Pensa che avere una famiglia e dei figli sia un ostacolo per una donna?
«Quando scrivevo il primo, avevo ancora tre figli a casa e facevo il bucato e le faccende domestiche. E vedevo la differenza con i miei amici che non avevano figli. Quello che si cerca sempre in una storia è una sorta di contrasto che genera interesse, conflitto o desiderio. Quindi ho messo insieme questi due tipi di vite femminili, una più libera e una più addomesticata. Senza dire che una delle due è migliore dell’altra. Anche in Free love la protagonista è bloccata in casa e raggiunge la liberazione grazie all’amore. Ma non penso di essere una scrittrice rivoluzionaria sulla vita delle donne, penso di essere più interessata a guardare e usare il materiale che la quotidianità ti mette a disposizione. In un certo senso penso sempre che la scrittura sia un po’ come l’antropologia. Osservo questi diversi esperimenti».
Quando lei esplora le relazioni tra uomini e donne e le relazioni complesse, pensa che le donne sfidino le aspettative della società?
«Non lo so, è solo che le donne che sfidano le aspettative della società sono state la storia dell’ultimo secolo. Da dove cominciamo, forse dagli ultimi 50 anni, forse dagli ultimi 70, forse dal secolo scorso. È una storia affascinante. E io sono solidale con la lotta delle donne e con il femminismo. Ma allo stesso tempo, come narratrice, sono più curiosa di osservare come donne diverse fanno cose diverse. I libri devono essere ambivalenti e ambigui. I miei libri non sono feroci accuse alla maternità, ma semplicemente mostrano e osservano le madri in tutte le loro difficoltà e frustrazioni e a volte anche nella loro mancanza di libertà, ma anche, spero, registrano le gioie e la straordinaria bellezza della maternità».
Spesso però ci si riferisce alla letteratura femminile definendola “narrativa domestica” e viene considerata con una certa sufficienza.
«Sì. È piuttosto fastidioso quando viene chiamata narrativa domestica. Ma credo che questo derivi più da una prospettiva di classe - le famiglie borghesi bianche - che non da un problema di percezione femminile».
Spesso le donne non osano nemmeno pensare di poter fare qualcosa. È un po’ la sua storia personale…
«Sì, è vero. Per un uomo è semplice pensare: posso farcela. Credo che l’autorevolezza venga in modo più naturale, anche al giorno d’oggi, per un maschio. Le donne anche adesso lottano più a lungo con i dubbi. Molte scrittrici non iniziano davvero prima dei 40 anni. In parte perché prima stanno allevando i figli o facendo altro. Ma è anche una questione di acquisire la propria autorità e di conquistare l’io sicuro di sé. Questo arriva spesso con la mezza età».
Francis Scott Fitzgerald, riferendosi a Zelda, disse: “Forse sarebbe stata un genio, se non ci fossimo mai incontrati”. È d’accordo con questa frase?
«Nei secoli ci sono state donne che, per una ragione o per l’altra, incluso il fatto di essere coinvolte nella vita di famiglia, non sono state libere di essere artiste come lo sono stati i loro mariti, i loro fratelli e i loro padri. Ma anche uomini che, essendo uomini della classe operaia, non sono stati in grado di intraprendere questa strada. A essere onesti, il romanzo soprattutto in inglese, è stato scritto in grande maggioranza da donne. Ed è sempre stato letto dalle donne. E abbiamo la nostra grande tradizione ottocentesca dominata dalle donne, Jane Austen, Charlotte Brontë, George Eliot e così via. Quindi, credo di non essermi sentita rivoluzionaria in questo senso. Scrivere romanzi incentrati sulla coscienza, sulla vita e sulle lotte delle donne mi sembrava appartenere a una grande, lunga tradizione. Anche molti uomini come Henry James, per esempio, o DH Lawrence, hanno scelto di incentrare i loro libri sulla coscienza delle donne, perché sentivano che quello era un luogo in cui si poteva registrare ciò che stava accadendo nel mondo. Hanno scritto romanzi meravigliosi, in cui le donne portano la fiamma della storia».