Tuttolibri, 1 luglio 2023
Intervista a Giancarlo De Cataldo - su "Colpo di ritorno. Un caso per Manrico Spinori" (Einaudi)
Il morto è il Mago Narouz, al secolo Capomagli Giuseppe, ritrovato cadavere nella sua casa di Trastevere. Figura ambigua, metà ciarlatano metà psicologo, dispensatore di numeri e filtri d’amore per vip e politici, tutti potenzialmente colpevoli. Epperò scandagliare, interrogare, muoversi tra questa «riccanza» un po’ sciupata e burina da Grande Bellezza, protetta dalla legge (nel caso dei deputati) o dagli agenti (per le starlette), è frustrante. Ancor di più se la lirica non arriva in aiuto, almeno non subito («Il vero problema era che non riusciva a inquadrare l’opera di riferimento») e il suo braccio destro, la ruvida e coatta ispettrice Deborah Cianchetti, è distratta da una probabile e tormentata gravidanza. Quando però tutto sembra perduto, proprio da lei, e dall’aristocratica ed eccentrica mamma ludopatica di Manrico, arriveranno gli ultimi e indispensabili tasselli per comporre il puzzle indiziario. Coup de théâtre insomma, anzi Colpo di ritorno, in magia l’effetto boomerang di un’operazione esoterica non andata a buon fine.
De Cataldo ci tiene incollati fino alla fine, in questo giallo dal ritmo musicale, in cui sbircia dal buco della serratura nei salotti della «gente che conta», alza i tappeti dove si tiene nascosta la polvere, apre gli armadi con gli scheletri, e ci mostra tutta la fragilità umana di un mondo patinato che penseremmo immune da piccineria. E invece.
Dalla violenza ostentata, spudorata, politicizzata degli Anni 70 e 80 - pistole e sangue, cadaveri in strada, bande contro Stato - ai delitti per disperazione, silenziosi e «puliti» su cui indaga Manrico Spinori, il pm melomane (come il suo autore), garantista e non carrierista. Coprotagonista, «sempre e ancora Roma, la mia Roma, quella in cui sono approdato da adolescente ma che già conoscevo da bambino».
Vent’anni dopo “Romanzo Criminale”, Giancarlo De Cataldo vira dal noir al giallo: cos’è cambiato?
«Romanzo criminale (come Suburra) si muoveva tra gli strati più bassi della società: lì il crimine era organizzato, dettato dalla necessità. Manrico invece ha a che fare con la “gente normale”, persone come noi, con chi delinque per sopravvivere o perché scopre dentro di sé una crepa che non riesce ad affrontare se non con la violenza».
Cosa trasforma la “gente normale” nell’assassino della porta accanto?
«Concordo con Gadda, secondo il quale i delitti non sono mai la conseguenza o l’effetto di un unico motivo, ma il frutto di un groviglio di cause. E ha ragione pure Balzac, che di cause ne individua due: l’oro, cioè l’interesse, e la passione, cioè il moto psicologico».
Sullo sfondo, un’Italia superstiziosa e credulona: la vede così?
«Questo è stato, ed è ancora, un Paese di santoni, maghi e pure di imbonitori che propongono misteriosi sieri per curare il cancro. Alla base ci sono sempre una profonda disperazione esistenziale e speculatori pronti ad abusarne».
Lei che rapporto ha con l’occulto?
«Mi affascina la capacità di penetrazione che ha il pensiero magico in ognuno di noi e la tenacia con cui sopravvive nel corso dei secoli».
Si sarà dato una spiegazione...
«Abbiamo bisogno di inventarci totem, tenebre e divinità perché l’orizzonte materiale ci sembra troppo limitato. Ci servono per scendere a patti con la parte meno decifrabile del nostro inconscio».
C’è uno stereotipo su Roma che la infastidisce?
«L’idea di “Roma ladrona” mi offende. Da 30 anni è costantemente privata di risorse, unica grande capitale al mondo che si paga le spese dello Stato. È insultata e saccheggiata, si considera quasi un oltraggio investirvi, però allo stesso tempo la si vuole capitale splendente».
In “Colpo di ritorno” i politici sono macchiette, per altro facilmente riconducibili “a persone realmente esistenti”....
«Davvero? Ma va’...» (ride)
Anche siti web e una certa tv scandalistica sono riconoscibili. Lei fa così, lancia frecce sottili: è la sua cifra stilistica?
«Certo! Io conosco molto bene l’impatto che può avere un articolo o una campagna social su un’inchiesta, su un processo, sulla vita delle persone. Oggi non puoi più scrivere un giallo senza tenere conto della scienza e dei media. Altrimenti, se vuoi rilassarti, ambienti il libro nell’Ottocento quando una figlia poteva riconoscere suo padre dopo lunghe e struggenti ricerche: oggi con il dna ci metterebbe un attimo».
Il suo Manrico nasce - narrativamente parlando - nel 2020. È maturato in questi tre anni?
«Ha avuto un’evoluzione lenta e impercettibile, ma resta incapace di costruire una relazione sentimentale matura. E in questo è l’opposto di me. Lui è farfallone, gentile, non un “toccone” volgare ma un seduttore suo malgrado».
L’etica professionale può coesistere con la leggerezza in amore, quindi?
«Assolutamente sì. Manrico non è tormentato da un amore impossibile o ferito da un grande errore commesso in passato, non è neppure in lotta con il mondo: queste sono caratteristiche del modello americano e protestante che non appartiene agli italiani. Noi saremmo di indole più morbidi, inclini ai compromessi, anche se ultimamente stiamo diventiamo ringhiosi. E anche Manrico è più amaro, ha meno voglia di giocare, si guarda intorno e vede un Paese più incattivito e superficiale».
E lei, Giancarlo, quanto è diverso rispetto agli esordi?
«Il successo mi ha cambiato profondamente».
In che modo?
«Mi ha fatto bene, mi ha tolto una grande insicurezza, e aiutato da un punto di vista materiale: un conto è essere un aspirante scrittore, che deve bussare alla porta dell’editore e si danna l’anima perché il suo manoscritto venga letto, altro discorso è quando ti cercano per pubblicarti».
È successo anche a lei, quindi, di bussare?
«Come a tutti. Gli inizi sono difficilissimi. Carmelo Bene diceva: “Vorrei qualcuno che mi introduca”. È ipocrita chi sostiene che il successo non incida».
“Romanzo Criminale” l’ha scritto nel bagno di casa a Trastevere, per poter fumare senza dar fastidio al figlio piccolo. “Suburra” nell’alloggio di Prati. E la serie di Manrico?
«Sempre a Prati ma nel frattempo ho abbandonato il viziaccio».
Merito di un libro?
«In realtà me l’ha imposto il medico sul lettino dell’ospedale Santo Spirito mentre mi metteva uno stent».
Dice che l’Intelligenza artificiale la angoscia: perché?
«Un giorno ho chiesto a Chat Gpt: “Raccontami la trama di Io sono il castigo, romanzo di Giancarlo De Cataldo”. Sa cosa ha risposto?».
Cosa?
«“Il castigo è il nome che danno in gergo al giudice Diego De Silva perché è cattivissimo, ma in seguito a una vicenda che coinvolge anche suo figlio diventa più riflessivo nell’applicazione della pena. Ecco come De Cataldo racconta il cambiamento di un’epoca nella sua Napoli”. Assurdo. Io comprendo il dibattito sul futuro dell’IA: proverà mai empatia? Gli entusiasti dicono che risolverà il 90% dei nostri problemi, gli scettici che verrà governata da chi avrà potere, soldi, autorità».
E lei da che parte sta?
«Per ora con gli scettici. Ma quando sento che l’IA rischia di uniformare i contenuti artistici, allora penso che già accade, con certe serie tv e canzoni: tutte uguali».
Cosa deve temere l’Italia?
«È una costola del mondo occidentale, pervaso da una totale indifferenza verso la verità. Oggi è spaventosa la facilità con cui si prendono sul serio le teorizzazioni di rettiliani o No vax. Stiamo vivendo una profondissima crisi culturale».
La letteratura si sta disinteressando alla mafia: perché?
«Le mafie sparano meno e fanno meno notizia, quindi creano meno epica, e il tasso di morbosità della narrazione crolla. Lo stesso arresto di Messina Denaro a un certo punto è diventato desolante: si parlava solo delle fidanzate, riducendo la cattura di uno dei più sanguinari capi mafia neanche a fiction ma a sit-com. La grande stagione dei romanzi anti-mafia è finita».
Che fare, allora?
«Bisogna indagare su come si stanno organizzando le mafie, su come penetrano nella nostra economia, più che inseguire fantasmi di vecchi mafiosi, quasi tutti moribondi o arrestati. Gli addetti ai lavori stanno lavorando bene, per fortuna non filtrano molte notizie: il cicaleccio e il gossip sono nemici quanto l’omertà».
Da ex magistrato che idea si è fatto della riforma della giustizia appena approvata dal Consiglio dei ministri?
«Trovo inaccettabili le parole del ministro Nordio (e spiace che sia stato anche un collega) secondo cui “i magistrati devono applicare la legge e non devono interferire”. Persino il fascismo, nel passaggio dal codice Zanardelli al codice Rocco, interpellò i magistrati. In un Paese normale ci si siederebbe tutti intorno a un tavolo, politici, magistrati, banchieri (perché la giustizia costa) per cercare soluzioni nell’interesse dei cittadini, ma in queste condizioni non accadrà mai».
Mi dice un aspetto che la lascia perplesso...
«Tra i tanti l’idea di sottoporre la proposta di custodia cautelare al vaglio di tre magistrati invece di uno, equivale a chiudere la saracinesca della giustizia in tre quarti dei tribunali italiani. È incredibile che chi lavora su questo non si sia posto il problema. Vuol dire che non si ragiona sulla riforma della giustizia ma è uno scontro ideologico e politico».
È mai stato tentato dalla politica?
«Mi proposero di candidarmi alle Europee, 15 anni fa, ma rifiutai dopo una lunga riflessione interiore. Ora ho 67 anni e dico: largo ai giovani».
Lei, dice, diventa scrittore a 8 anni perché non sapeva giocare a calcio. Cosa scriveva?
«Il mio primo racconto si intitolava “Il capitano di Algesiras”».
Lo conserva ancora?
«Non esageriamo, ma ho i manoscritti degli anni del liceo. Ogni tanto li rileggo e penso: è incredibile che da questa roba sia venuto fuori uno scrittore».
Il primo libro che ha letto...
«Le novelle di Collodi, prima ancora di iniziare la scuola. I miei genitori erano insegnanti, vivevo immerso nei libri e imparai da solo a computare le sillabe su quei pannelli didattici dove c’erano le lettere con i disegni, tipo “C di cipolla”».
Il romanzo che avrebbe voluto scrivere?
«Le illusioni perdute di Honorè de Balzac, che amo tantissimo. Inconsciamente ha influenzato Romanzo criminale, ma è anche la mia proiezione di giovane di provincia alla conquista di Roma».
Il libro sul comodino…
«L’ultimo di Markaris, poi ho in lista d’attesa ho Manzini, Il ciarlatano di Isaac Singer e La Fisica della malinconia di Georgi Gospodinov».
Ce l’ha ancora il sogno nel cassetto?
«Vedere un’opera lirica nel teatro di Manaus, in Amazzonia, quello costruito da Fitzcarraldo nel bellissimo film di Herzog. Se riesco scrivo un reportage per La Stampa. Promesso».