Corriere della Sera, 30 giugno 2023
Intervista a Paul Cayard
Genova I baffoni gli davano forza e fascino. Oggi, trent’anni dopo, fanno posto a una barbetta più sale che pepe di tre giorni. Ma la forza di Paul Cayard è oramai scritta nel libro mastro della vela: campione del mondo, coppe, trofei, encomi, un nome, una leggenda. Nel 1992 con il Moro di Venezia di Raul Gardini arrivò lì dove nessuna barca italiana era giunta prima di allora: la finalissima della Coppa America, l’Everest del mare, che si disputava in California nelle acque di San Diego. Furono i mesi in cui l’Italia, incollata alla tv a orari impossibili, si innamorò di lui, lo skipper americano voluto da Gardini alla guida delle regate ed eletto a super manager sportivo. Dopo il trionfo, però, la tragedia: la mattina del 23 luglio del 1993, giorno in cui doveva essere arrestato, Gardini si puntò l’arma alla tempia e schiacciò il grilletto. Cayard era con lui a Milano nelle stanze di palazzo Belgioioso, teatro del suicidio. E rieccolo in Italia, fra queste barche oceaniche approdate a Genova per la tappa finale dell’Ocean Race, il giro del mondo a vela. Nei giorni in cui il dibattito sulla figura di Gardini è stato riacceso da eventi, incontri e un paio di libri (Solferino pubblica «Di vento e di terra», il romanzo vero di una vita di sfide), Cayard ha deciso di parlare del suicidio: «Per ricordare colui che è stato per me come un padre e un grande amico».
Partiamo dalla fine, da quel colpo di pistola...
«Uno choc totale, non ci potevo credere, quella settimana ero stato con lui fino a due giorni prima, proprio a palazzo Belgioioso. Raul aveva letto del suicidio di Gabriele Cagliari e mi diceva che era una strana cosa, con quel sacchetto di plastica nella testa. Era molto preoccupato. Non voleva finire in carcere anche lui, secondo me perché lì non si sentiva più padrone della sua vita e lui non sopportava l’idea che fossero gli altri a decidergli il destino».
In che senso è stato per lei un padre?
«Avevo 26 anni e non ero nessuno, ha creduto in me, mi ha aperto le porte di casa sua e mi ha aiutato molto. “Paolino – mi ha detto – tu vieni a vivere a Milano e io ti do tutto quello che ti serve”. E l’ha fatto, mi ha dato tutto, soprattutto la fiducia. Quando è morto avevo 33 anni e una professionalità tale che mi è bastata per il resto della vita».
Perché Gardini scelse proprio lei?
Riconoscenza
Avevo 26 anni e non ero nessuno. Ha creduto in me e mi ha aiutato molto. «Paolino – disse – tu vieni a Milano e ti do tutto quel che ti serve»
«Lui mi disse che a parlargli di me era stata Eleonora (primogenita di Raul, ndr). Mi aveva visto vincere una regata in Sardegna, dove io ero in sostituzione. Raul ha voluto provarmi e ha deciso subito. Guarda questa foto – ci mostra una foto ingiallita – è quella della prima volta con lui sul Moro, questo sono io, questa è Eleonora di spalle, in bikini, eh, quello è Raul...».
Com’è nata l’idea della Coppa America?
«Siamo a San Francisco per il mondiale Maxi del 1988, nello stesso albergo. Vinciamo la prima regata e la mattina dopo, a colazione, c’era anche il suo amico marinaio Angelo Vianello, mi dice: “Paolino, dobbiamo fare la Coppa America”. Io ho detto: “Raul, questa è brutta idea”. “Perché?” “Costa un sacco di soldi, perdi molto tempo e vince uno solo”. Il secondo giorno, altra vittoria e altra colazione insieme. “Paolino, pensaci”. Dopo ogni vittoria me lo ripeteva. Alla fine delle cinque regate, tutte vinte e vinto il Mondiale, è stato impossibile dirgli di no. Ci ha portati tutti in Argentina e ha parlato delle sue idee grandiose».
Il varo del Moro a Venezia con la regia di Zeffirelli, il cantiere Tencara con la tecnologia più avanzata e potente... non spendeva un po’ troppo?
«Potrebbe sembrare, sì, ma è vero anche che se tu dai l’impressione di essere vincente il gruppo è motivato e alla lunga questo ti ripaga delle spese, quel che è successo».
Lui era divertente, coraggioso, un grande motivatore e delegava molto. Con lui tutti quanti davano il massimo e si restava uniti
Pregi e difetti del grande capo?
«Era divertente, coraggioso, un grande motivatore, delegava molto e non avevi mai l’impressione che potesse dubitare di qualcuno, così tutti davano il massimo e si rimaneva uniti. Difetti? Non sapeva guidare, una volta siamo andati da Montezemolo a vedere una Ferrari, lui era al volante e passava dalla prima alla quarta e il contrario, la macchina strattonava e diceva: non ci sono più le Mercedes di una volta. Capito? Altro difetto? Fumava troppo, anche in aereo. Ricordo un viaggio in cui mi sono svegliato tossendo per il suo fumo. “Sai cosa Paolino, dovresti iniziare anche tu, in modo che hai un filtro naturale”. E non scherzava».
Cos’è l’Italia per lei?
«Il Paese che mi ha adottato, che mi ha coccolato e continua a farlo come se fossi un Alberto Tomba, incredibile».
Oggi cosa fa?
L’Italia è il Paese che mi ha adottato, mi ha coccolato e continua a farlo come se fossi un Alberto Tomba.
Per me è incredibile
«Sto seguendo la squadra americana di vela. Un impegno che sta via via diminuendo. Poi dovrò immaginare qualcos’altro».
In Italia?
«È possibile, io amo questo Paese. A volte penso che ho sbagliato a non restare qui dopo il Moro».
Si avvicinano timorose alcune ragazzine: «Do you want a photo?», sorride lui. Si alza e ne fa una con ciascuna.