Corriere della Sera, 1 luglio 2023
Perché non arriva ancora la terza rata
Poiché a volte vicende piccolissime indirizzano questioni molto più grandi, è il caso di chiarire cosa c’è dietro il blocco della terza rata del Pnrr. Ormai celebre, questa è un’erogazione da 19 miliardi di euro che la Commissione europea dovrebbe aver già versato al governo al raggiungimento entro la fine dello scorso anno di 55 obiettivi da parte dell’Italia. Perché allora la rata non si sblocca? Semplicemente, prima di pagare, i funzionari di Bruxelles hanno provato a fare controlli a campione su ciò che il governo affermava essere stato fatto. Si inizia sorteggiando pochi casi quindi, se risultano degli intoppi, si estendono i controlli su un numero di campioni più ampio. E qui qualcosa è andato storto: sembra che a dicembre scorso l’Italia abbia dichiarato a Bruxelles di aver già realizzato 7.500 posti letto per studenti (gli appalti sono ad opera delle università), ma per alcuni di questi i lavori sono ancora in corso. Gli errori sono da distribuire fra il governo precedente – che ha sottovalutato la complessità del progetto – e l’attuale che, tecnicamente, ha dichiarato a Bruxelles qualcosa che non era vero. Ha detto di aver fatto ciò che non era fatto, forse perché Palazzo Chigi ha preso per buone le rassicurazioni di qualcun altro. Così per alcuni posti letto mancanti, 19 miliardi di euro restano bloccati.
Non è una cosa da poco: senza quei fondi la liquidità disponibile del Tesoro a fine maggio era scesa ad appena 26,6 miliardi – perché il ministero dell’Economia contava sulla terza rata – mentre un anno fa era a ottanta e due anni fa quasi di cento miliardi. Qui è partita una girandola di azioni e omissioni che dice tantissimo del posto dell’Italia in Europa e dell’approccio dell’Italia verso l’Europa di questi tempi. A Bruxelles Ursula von der Leyen – sostenuta in questo dal commissario italiano Paolo Gentiloni – ha iniziato a mettere fretta ai suoi funzionari perché non si ostinassero a congelare 19 miliardi per l’inghippo degli studentati. Quelli però non ci sentono, perché l’Italia ha dichiarato il falso e comunque – dettaglio decisivo – alla Corte dei conti europea poi rispondono loro personalmente. A Von der Leyen preme aiutare Giorgia Meloni, perché vuole il sostegno della premier quando fra un anno cercherà di farsi rieleggere alla presidenza della Commissione europea. Ma Bruxelles è uno strano posto dove – incredibile, visto dall’Italia – i numeri, il diritto e le questioni di merito possono persino prevalere sulle manovre politiche. A Roma intanto si nota di più quel che non è successo.
Il governo non ha preso la strada più semplice: ammettere serenamente che non tutti gli studentati erano pronti e accettare di conseguenza da Bruxelles un pagamento parziale, magari 18,8 miliardi, in attesa di ricevere i duecento milioni restanti quando gli ultimi posti letto sarebbero stati a posto. No, noi teniamo duro: o tutto o niente. L’insofferenza di Meloni mercoledì in Parlamento – quando ha riservato frecciate a Gentiloni, al Mes che l’Italia ancora non ratifica e persino alla Banca centrale europea – forse si spiega anche con il fastidio per questo stallo sul Pnrr. Ma quelle critiche e il non volersi piegare all’opzione del pagamento parziale rivelano anche che la premier in Europa si sente forte. Forte per ragioni economiche e soprattutto per ragioni politiche.
In fondo dall’inizio dell’anno l’Italia è cresciuta più della media europea. E in questo momento in tanti hanno bisogno di Meloni, cioè del sostegno dell’Italia e del suo pacchetto di un’ottantina di voti «conservatori e riformisti» nell’Europarlamento ora che gli elettori europei si stanno spostando a destra. In effetti Von der Leyen è spessissimo in Italia e persino Mark Rutte, austero premier olandese, ha dato man forte alla premier in Tunisia.
Il solo rischio è che Meloni sopravvaluti questa sua forza e finisca per fare dei passi falsi. Attaccare la Bce, mentre si continua a rinviare la ratifica di una modifica marginale al Meccanismo europeo di stabilità, dà solo il segnale all’interno e sui mercati che l’adesione dell’Italia all’euro non è senza riserve. Diventa un modo per ricordare a tutti la vulnerabilità della nostra posizione. Di certo le critiche di un politico non cambieranno la rotta della Bce: data la sua indipendenza, semmai il contrario (infatti nessun premier europeo prima d’ora era caduto in questa trappola). E nessuno oggi in Europa trova realistica la tattica dell’Italia di ventilare la ratifica del Mes solo in cambio di regole di bilancio più morbide: nessun altro governo accetterebbe il baratto.
Anche perché l’Italia un po’ va meglio, sì, ma non esageriamo. L’economia sta visibilmente rallentando per tutti, anche per noi. Dal 2019 poi siamo cresciuti un po’ più di Francia e Germania, ma la metà della media dell’Unione europea, un terzo degli Stati Uniti e saremmo cresciuti quasi zero senza fare 130 miliardi di debito in più per i bonus-casa. E ora questo debito va finanziato.
Fabio Balboni di Hsbc, una banca di Londra, stima che l’aumento del volume sul mercato dei titoli di Stato italiani sarà di poco più di 120 miliardi quest’anno e di circa 140 nel 2024 (inclusa la carta che la Bce smetterà di riacquistare a ciclo continuo). Si tratta dei livelli di gran lunga più elevati da quando esiste l’euro e questi sono tutti titoli in più per i quali il governo italiano dovrà trovare dei compratori. Non è affatto detto che andrà male, non siamo condannati a una nuova crisi del debito. Al contrario. Il fatto che Meloni abbia evitato promesse di spesa e l’esistenza del «Transmission protection instrument», lo scudo promesso dalla Bce un anno fa, stanno dando un ancoraggio solido all’Italia. Ma non c’è àncora che tenga se il marinaio nutre troppa fiducia in se stesso o inutili pregiudizi. Se ha un po’ di forza, è il momento di investirla in un’agenda positiva per la crescita.