Tuttolibri, 1 luglio 2023
Biografia di Sibilla Aleramo
All’inizio di agosto del 1956, pochi giorni prima di compiere ottant’anni, Sibilla Aleramo scrisse ad Arnoldo Mondadori una lettera notevole sotto molti aspetti, a cui viene affidata la missione di trasmettere all’editore un suo antico cruccio: la preoccupazione che le sue opere escano dalla circolazione. Nella prima riga la scrittrice annuncia il suo imminente compleanno che basterebbe a meritarle onoranze nazionali, se fosse «nata in un qualunque altro paese»; e invece, essendo italiana, non riceve che umiliazioni – copie svendute, copie al macero, ristampe negate.E prosegue, perentoria, proiettata sulla posterità: «Oppure, illustre editore, rassegnatevi al fatto che, fra altri cinquant’anni, quando qualcuno leggerà nel mio diario postumo che questa mia lettera non fu da voi compresa, si farà un’idea pochissimo edificante di voi, siate o no, miliardario…».Infine, sprezzante, un maestoso congedo: «Io ho dinanzi a me il futuro, anche se voi non lo credete.»La corrispondenza con Mondadori, che è stata analizzata nel dettaglio da Sabina Ciminari, ce la mostra animata da uno spirito d’iniziativa da donna d’affari, pragmatico e bellicoso, formatosi nella conquista di un’indipendenza nuova e scandalosa, dopo l’abbandono del tetto coniugale, di un marito gretto, di un bambino piccolo che – Anna Karenina della provincia italiana fin de siècle – lei decide di lasciare per non annullarsi nella prosa spenta di una vita periferica, come racconta in Una donna.In tutto quello che scrive, emerge una tempra energica, una sorta di irriducibile ostinazione. Un’attitudine un po’ teatrale a raccogliere il plauso stupito di chi assiste a questa personalità fuori dal comune; un coraggio e un’irruenza melodrammatici. Il tutto su un tangibile carisma, che non traluce soltanto dai tratti della sua persona e personalità, che esorbitano la norma, la medietà, la misura, e che nella sua opera occupano uno spazio preponderante, perché, della storia di Sibilla e della sua autopsia, quest’opera si nutre. Quel segreto traspare anche, e soprattutto, dall’intelligenza lucida di Sibilla Aleramo, che le permette di giocare con la sua maschera di diva anche in una lettera adirata all’editore. Che le permette di raccontare quel che una donna non aveva raccontato mai, a venticinque anni appena, con la sua autobiografia incendiaria, Una donna – un romanzo che, dopo centovent’anni, ancora ha una voce, e viene letto e ristampato. L’intelligenza di Sibilla Aleramo, piena di slanci, famelica di vita, ha trovato un suo spericolato sistema per combaciare alla sua personalità strabordante. Ne risulta un talento indefinibile, che abbagliò molti suoi contemporanei, e che continua a parlarci dalle sue pagine, invecchiate senza perdere smalto, fieramente votate a sbrindellare la logica «maschile» e la sua feroce freddezza, travolgendola in una dialettica passionale e idiosincratica. E come scrive lei stessa in Amo, dunque sono, titolo programmatico di una nuova forma di coscienza amorosa: «Ch’io imprima alla mia volontà in tutte le sfere dell’essere il segno dello spirito, il fiero segno della coscienza, e l’uomo, superbo di sentirsi vivo sol quando pensa, si volgerà verso me pensosa d’amore e valorizzerà infine questa ch’egli ha creduto sempre soltanto forza oscura amorfa arbitraria: Amo, dunque sono.»Questo cartesianesimo sensuale dà forma e ritmo alla sua opera di poeta, che fa da contrappunto all’attività di romanziera. La vocazione poetica in Aleramo emerge all’improvviso, intorno ai trent’anni, con l’urgenza di un’epifania, come racconta Silvio Raffo, a sua volta poeta oltre che raffinato studioso di vite e opere di grandi donne stravaganti, nell’introduzione a questa raccolta. È un richiamo a cui lei non può né desidera resistere, e l’ammissione della sua naïveté tecnica si trasforma in una conferma della spontanea necessità dell’ispirazione.Sibilla Aleramo ha consapevolezza, non camuffata da nessuna modestia, del carattere della propria storia. Che poi è forse il tratto più tipico della diva; ma è, anche, lo scatto che permette a Marta Felicina Faccio di sfuggire a un destino atroce che pareva prefigurarsi nelle violenze dell’adolescenza – stuprata a quindici anni da un dipendente del padre, costretta a sedici a sposarlo – e che forse l’avrebbe trascinata in una parabola simile a quella di sua madre, che tentò il suicidio e finì i suoi giorni in manicomio. Lei, però, ha sufficiente slancio da reinventarsi una vita e appropriarsi di un futuro suo, con audacia e con il nome d’arte che le viene suggerito da Giovanni Cena, poeta e suo amante: Sibilla Aleramo. Sibilla, come la veggente; Aleramo, anagramma di Amorale. Nel nome, è il destino che si scelse.E così la storia della sua liberazione diventa un romanzo di lunghissimo successo, il cui titolo coglie l’aspetto esemplare di quest’emancipazione: Una donna. Del resto a Sibilla non manca, e non mancherà mai, la coscienza del proprio ruolo, l’impiegare la propria storia eversiva al servizio della causa dell’emancipazione, dimostrata anche nella storia d’amore con Lina Poletti, esperienza di profonda introspezione sulla natura del femminile.Nelle ultime poesie qui raccolte, il senso dell’impegno civile talvolta prevale sulla spontaneità dell’ispirazione; ma il fuoco che la illumina dall’interno non si estingue mai e continua a bruciare in certi temi e stilemi che ci raccontano di una donna che osserva sé stessa dall’esterno, attenta e partecipe di quel che accade in lei come riflesso dell’accadere del mondo. Un vitalismo inquieto accende le scelte lessicali, la natura tutta è percorsa da una frenesia per cui corre accelerata una gran primavera di fiori e ribolle d’impazienza il sangue. Vena è parola ricorrente: oltre al senso anatomico del vaso sanguigno, pare prendere un’accezione più botanica, a significare il frastuono di linfa e di scintillii dorati che percorre tutto ciò che vive. In tutto questo gran correre di desideri trova posto anche l’evocazione di una mortifera stanchezza, in cui la morte appare come il luogo del ristoro; fioriscono rose bianche, mentre si alternano l’età della passione e quella del rimpianto, in un simbolismo naturalistico elementare ma vigoroso. A infondergli vita è un’aura di infanzia che splende dappertutto, una voce di bambina interiore, la «Piccina» del titolo di una delle poesie più belle, che talvolta si intreccia all’ombra del figlio perduto, in una bizzarra armonia con l’esperienza e lo sfinimento della donna, che sarebbe molto contenta, ben oltre cinquant’anni dopo quella lettera, di sapersi ristampata.