il Giornale, 30 giugno 2023
Storia delle due guerre dell’oppio
Se vi avventurate, anche per un breve viaggio, all’interno della Repubblica popolare cinese, potreste restare stupiti di quanto spesso vengano fatti richiami al fu Celeste Impero. È stupefacente, per una nazione comunista quanto il ricordo della dinastia Quing (1644-1912) sia rimasto forte. I cinesi rimpiangono una sorta di età dell’oro, di isolamento e indipendenza che gli ultimi imperatori Quing non sono riusciti a salvaguardare. Insomma, quelle che la storiografia ci ha tramandato come le «guerre dell’Oppio» sono un trauma che la Cina contemporanea pare non aver superato del tutto, osia l’inizio di un infelice rapporto con l’Occidente che, nel XXI secolo, secondo molti cinesi finalmente è possibile invertire, se non «vendicare». Se partiamo da questo ragionamento cercare di capire cos’è accaduto durante i due violenti conflitti, il primo avvenuto tra il 1839 e il 1842, il secondo tra il 1856 e il 1860, diventa qualcosa di più di un mero esercizio speculativo; diventa il modo di andare alla radice di un rapporto complesso e ancora irrisolto. Per farlo risulta utile il volume di Sergio Valzania appena pubblicato per i tipi di Mondadori e intitolato proprio Le guerre dell’oppio. Il primo scontro tra Occidente e Cina (pagg. 278, euro 20). Lo storico e divulgatore, che ha molta passione per le questioni militari, analizza il tema allargando l’analisi alle lunghe e complesse vicende che hanno preceduto lo scontro. Si iniziò infatti con la diplomazia, o meglio con grandissimi equivoci scambiati per diplomazia. L’Inghilterra, con il suo Impero coloniale, in piena espansione, iniziò a cercare di prendere contatto con la corte imperiale cinese già nel 1793. La rappresentanza diplomatica britannica, capitanata da George Macartney (1737-1806), incappò subito in una serie di falle comunicative insanabili. Per i cinesi si trattava di barbari che si recavano dall’imperatore per riconoscere la sua superiorità. Insomma gli inglesi venivano a compiere il «kowtow», l’omaggio rituale con cui si riconosceva la superiorità di Pechino, il centro del mondo. Gli inglesi, invece, volevano aprire altri porti orientali al commercio, la concessione di una base navale, lo scambio di ambasciatori alla pari. Ovviamente l’incontro fu un fallimento. Pura incomprensione? O i cinesi, che contatti con l’India ne avevano, iniziavano a rendersi conto di come operava la Compagnia delle Indie una volta che penetrava in un territorio? Insomma che era meglio usare una scusa qualunque per concedere il meno possibile. Non lo sapremo mai. Di sicuro le navi inglesi iniziarono ad arrivare sempre più numerose per dare alla fonda nell’unico porto cinese aperto ai commerci: Canton. Soprattutto dopo che il dominio dei britannici sul subcontinente indiano divenne sempre più solido. E senza diplomazia e accordi a farla da padrone furono le esigenze di una primitiva globalizzazione portata avanti senza scrupoli. La Cina forniva prodotti preziosissimi, come il tè, il rabarbaro, la seta... Gli inglesi però non potevano continuare all’infinito a pagare questi prodotti di lusso in argento: rischiavano la bancarotta. La trovata «geniale» dei commercianti di Sua Maestà fu quello di importare in Cina oppio prodotto in India. Era un modo più che efficace di mantenere in equilibrio la bilancia dei pagamenti, a cui rapidamente si associarono anche altri Paesi come gli Stati uniti. In breve i mercanti britannici divennero i più grandi trafficanti di droga del pianeta. Gli effetti sulla popolazione cinese, soprattutto sui suoi ceti medi, furono devastanti. Era inevitabile che a un certo punto ci fosse una reazione. L’imperatore Daoguang, salito al trono nel 1820, cercò di intervenire sui suoi sudditi, senza ottenere risultati apprezzabili. Determinato a debellare il traffico, nel marzo del 1839 inviò, in qualità di commissario imperiale, il mandarino Lin Zexu (1785-1850) a Canton, dove era concentrata la maggior quantità di oppio che entrava nel Paese. Zexu ne fece subito distruggere un’enorme quantità sequestrata ai trafficanti stranieri e indirizzò una missiva alla regina Vittoria del Regno Unito affinché intercedesse per porre fine al traffico. La scelta del commissario imperiale della linea dura, risulta perfettamente comprensibile, sia in termini di sovranità nazionale sia in termini di ordine pubblico. Ma Zexu, solidissima formazione in morale e retorica confuciana (i funzionari cinesi subivano una selezione di prim’ordine), non aveva però la preparazione tecnica per valutare la disparità di capacità tecnologica fra le forze di cui poteva disporre. Da parte di Londra non arrivò nessuna marcia indietro. Anzi i commercianti inglesi, supportati dagli emissari del loro governo, chiesero di essere rimborsati dell’oppio distrutto. Ne nacque un braccio di ferro che sfociò in un primo scontro armato il 3 novembre 1839. Le fragili giunche cinesi attrezzate con artiglierie vecchissime che bloccavano il Fiume delle perle vennero rapidamente travolte dai pochi, ma molto più moderni velieri, della Royal Navy. Nel frattempo Londra stava mobilitando le sue forze inviando verso la Cina anche unita a vapore, che gettavano i cinesi nello sconcerto. Anche negli scontri a terra la fanteria britannica dotata di moderni fucili fece strage delle forze cinesi che utilizzavano archi e nei migliori dei casi obsoleti archibugi. Il risultato fu l’umiliante trattato di Nanchino, firmato il 29 agosto 1842 dalla Cina. Non fu una chiusura duratura delle ostilità perché, di nuovo, le parti non giocarono a carte scoperte nella ratifica. Il risultato fu il nuovo e devastante scontro del 1856-60. Dimostrò che, nonostante l’accanita resistenza cinese, il divario tecnologico era ancora aumentato. E britannici e francesi lo fecero pesare con ritorsioni violentissime. L’incendio della residenza imperiale estiva, lo Yuan Ming Yuan, il 18 ottobre 1860, ordinata da Lord Elgin figlio dell’Elgin che saccheggiò i marmi del Partenone, fu un evento così brutale da provocare inchieste anche a Londra e Parigi. Ma ormai il vulnus – dentro un orgoglio millenario – era stato inferto. E ancora lascia traccia in un Paese che pensa in termini di secoli come noi in termini di decenni.