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 2023  giugno 29 Giovedì calendario

Intervista a Tinto Brass

di Stefano Lorenzetto

Tinto Brass: «Cercai di scritturare Gianni Agnelli e Monica Lewinsky. Il porno in rete è diseducativo»
Colpito ad aprile 2010 da emorragia cerebrale a Marostica e ricoverato all’ospedale di Vicenza, Tinto Brass voleva buttarsi di sotto, «dal terzo o quarto piano, avrei preceduto di sette mesi Mario Monicelli». Era privo di memoria e parola. Ma, a differenza del regista di Amici miei, gli restava accanto una donna che lo amava, Caterina Varzi. E quando l’indomani lei si presentò in camera con un lettore cd e gli fece ascoltare «Le déserteur» di Boris Vian, già scelto come colonna sonora del film Ziva. L’isola che non c’è di cui doveva essere la protagonista, ritrovò ricordi e favella. E rinunciò al suicidio.
C’è questa solare avvocata calabrese dietro la resurrezione del «meraviglioso cantore del culo» (ipse dixit), che si considera simmetrico erede di Giorgio Baffo, poeta pornografo nella Venezia del Settecento, definito dal critico Guido Almansi «meraviglioso cantore della mona», come racconta in Una passione libera (Marsilio), scritto a quattro mani con la propria musa ispiratrice.
Dal 2017 anche moglie. «Non ho mai consumato».

Non posso crederci.
«La conobbi nel 2007. Mi rapì lo sguardo malinconico, sembrava Silvana Mangano. Sono guarito con i suoi spogliarelli alla Kim Basinger, toccavo il suo corpo nudo».
Una luce nel buio.
«Non sapevo di aver girato La chiave, non riconoscevo Stefania Sandrelli, Serena Grandi, Anna Ammirati e Vanessa Redgrave, così eccitabile che nelle scene di sesso con Franco Nero in La vacanza le si gonfiavano le labbra».
Però ricordava Caterina.
«Dipenderà dal fatto che è psicoanalista junghiana, allieva di Aldo Carotenuto, e voleva cercarmi l’anima».
Che però Brass non ha.
«Se mai l’ho avuta, la vendetti tanti anni fa. Le ho detto subito: cara, scordati di frugare nelle mie ossessioni. Per citare Giuseppe Prezzolini, io sono quel pezzetto di carne che mi pende in mezzo alle gambe, e, se si agita abbastanza, mi dà la più piena espressione di me stesso».
Perciò oggi non è nessuno?
«Ho 90 anni. Ma i sogni erotici non finiscono mai».
Per esistere cercava aiutini?
«Parla del Viagra? Mai!».
Dicono che quel «pezzetto» fosse la sua guida infallibile.
«Le erezioni sul set sono una mia invenzione. Voi giornalisti ve la siete bevuta».
Come la scrittura per un film offerta a Gianni Agnelli?
«No, quella era verissima. Sembrava molto dotato, a giudicare dalle foto rubate mentre si tuffava dal suo yacht. L’avrei voluto per L’uomo che guarda, tratto da Alberto Moravia. La segretaria era molto divertita: “L’Avvocato la ringrazia, ma è troppo impegnato”. Cercai di scritturare pure Monica Lewinsky, per difenderla dalle maîtresse à penser che la coprivano d’insulti solo perché avrebbero voluto essere al suo posto nella Sala Orale della Casa Bianca».
Immagino che lei non sia stato il primo, per Caterina.
«Il terzo, dopo due storie importanti. Di me regista non sapeva nulla. Si appassionò leggendo le mie memorie difensive per Caligola. Ho preso da mio padre Alessandro, penalista. Si era formato nello studio del grande Francesco Carnelutti. Ascoltavo di nascosto le sue arringhe in Corte d’assise, benché mi avesse mezzo diseredato».
Non ho capito che cosa andò storto nel «Caligola».
«Tutto. Gore Vidal si riteneva l’autore. Gli feci riscrivere la sceneggiatura sette volte. All’ottava stesura mi arrangiai da solo con l’aiuto di Malcolm McDowell e di un poeta scozzese. Ridimensionammo parecchio il ruolo di Peter O’Toole, per esempio».
Come finirà la diatriba?
«Si è messo di mezzo un produttore, Thomas Negovan. Non so chi sia. Io sono rimasto fermo a Dino De Laurentiis. Andremo avanti con le cause per violazione del diritto d’autore e per diffamazione. Dimenticano che Caterina è una penalista».
È una «sagra di kitsch fantapornosadomasolatino», leggo su «Il Morandini».
«Ne penso tutto il peggio possibile anch’io. Tant’è che mi processarono per oscenità, rinunciai all’amnistia e fui assolto. Non è il mio film».
Ma era pornografico o no?
«Non c’è distinzione fra cinema erotico e cinema porno. Stessa materia. Non m’interessa filmare gli amplessi».
Guarda l’hardcore sul web?
«No, me l’ha mostrato Caterina. Non mi pare una cosa bella da vedere. Manca qualsiasi mediazione estetica».
Su Internet i minori che idea si faranno della donna?
«Di un oggetto, anziché di un soggetto. Ha perso il mistero. S’è conformata ai modelli pecorecci dei social».
Disse «il De Mita del didietro», copyright Aldo Grasso.
«Da regista di kulossal preferivo il Re Mida del culo».
«Sul piano etico è più onesto della faccia, non inganna», teorizzò in un libro.
«Di qui il mio noto sillogismo aristotelico. Tesi: il culo è lo specchio dell’anima. Antitesi: ognuno ha il culo che si merita. Sintesi: mostrami il culo e ti dirò chi sei».
È fissato con i glutei.
«Fin da quando ero bambino. Spiai mia madre in camera da letto. Indossava una sottoveste che li lasciava intravedere. Rimasi assai turbato».
A che età scoprì il sesso?
«Avevo 12 anni quando ad Asolo, dov’eravamo sfollati per la guerra, palpai Emilietta, una delle tre governanti».
Piuttosto precoce.
«A 16 scoprii le prostitute. A Venezia c’erano 33 cinema e 33 casini. Passavo da un antro buio all’altro».
Ma non è nato a Milano?
«Per sbaglio. Venezia è stata per me madre, moglie e amante. Il primo rapporto lo ebbi con la Tinta (Carla Cipriani, detta Carlina, ndr)».
La trovo un po’ egoriferito.
«Mi chiamo Giovanni. Da bambino disegnavo molto. Mio nonno Italico disse: “In casa abbiamo un piccolo Tintoretto”. Così per tutti divenni Tintino e più tardi Tinto».
«Tinto, noi siamo la libertà», le ripete sempre Caterina. O il libertinaggio?
«Più il secondo, per me. Quando rincasavo, la Tinta mi chiedeva: “Ti sei lavato le mani?”. Era gelosa dei sentimenti. Non avrebbe tollerato che rimanessi 10 sere con la stessa donna. A 10 sere con 10 donne diverse non badava».
È stata una moglie fedele?
«No, era più trasgressiva di me. Praticavamo lo scambismo. Ma con lei ho fatto l’amore per 50 anni, l’ultima volta pochi giorni prima che morisse di tumore».
È sepolta a Venezia?
«Qui a Isola Farnese. Vede quell’ampolla in ceramica? È lì dentro. Prima la tenevo in camera mia. Quando morirò, le sue ceneri e le mie saranno sparse nella laguna di Venezia. Uniti per sempre».
Ma come? Mi dettò l’epitaffio per una tomba, 14 anni fa.
«In caso di tumulazione: “Fu vera gloria? Ai posteriori l’ardua sentenza”. Ne avevo anche un altro, rubato al figlio del pittore Pierre-Auguste Renoir, che frequentavo a Parigi: “Sarò Jean Renoir o niente. Missione compiuta”».
Meno gigionesco.
«Da cineasta ne avrei un terzo, cartesiano, diciamo così».
E quale sarebbe?
«Coito ergo zoom».