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 2023  giugno 29 Giovedì calendario

Le scuole a sgravio

Una realtà poco conosciuta e multiforme: le scuole elementari a sgravio in Italia dall’Unità al fascismo (recensione a: E. Gori, L’istruzione in appalto. La scuola elementare a sgravio dall’unità al fascismo, F. Angeli, Milano 2007, € 18) a cura di Evelina Scaglia, dottoranda di ricerca in Scienze pedagogiche, Università degli Studi di Bergamo Elisa Gori, dottore di ricerca presso il Dipartimento di Scienze dell’educazione e dei processi culturali e formativi dell’Università degli Studi di Firenze, ha voluto affrontare un tema poco indagato: la storia delle scuole elementari a sgravio dal 1859 al 1933. Come spiegato nell’introduzione al volume, «le scuole a sgravio nacquero come scuole pubbliche, non statali, al fine di garantire la funzionalità di un sufficiente numero di scuole, in ottemperanza alla legislazione sull’obbligo: Comuni, prima, e Stato, poi, potevano quindi contare sulla attività di altri enti che già gestivano scuole elementari, con diminuzione di costi ma anche con presumibile mancanza di titolo professionale dei maestri e possibile minore qualità» (p. 13). L’istituto giuridico dello sgravio, che rimase attivo da metà Ottocento fino al 1935, nasceva dalla facoltà, concessa ai Comuni, che fino al 1911 avevano l’obbligo di istituire e gestire le scuole elementari, di ‘sgravarsi’ di questo onere, in parte o in tutto, affidandolo a enti disposti ad offrire questo tipo di servizio. In particolare, Gori sottolinea come «(…) il Comune era considerato il soggetto ‘naturalmente’ portato a gestire l’istruzione elementare, in quanto struttura più vicina alle famiglie e alle comunità locali. [Tale consuetudine] esprimeva, nel bene e nel male, una modalità educativa radicata e sensibile al contesto e sottintendeva una possibile specificazione locale degli aspetti educativi ed operativi» (p.11) Queste prime constatazioni consentono già di rilevare come la questione delle scuole a sgravio vada letta alla luce del rapporto Stato-autonomie locali e del rapporto Stato-Chiesa; quest’ultimo, in particolare, richiama sia il tema del riconoscimento delle scuole non statali, sia quello della libertà nella e della scuola. Questo tipo di contestualizzazione ha permesso a Elisa Gori di trovare una risposta articolata al perché si sia ricorso allo ‘sgravio’, dagli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia fino alla seconda guerra mondiale. Va notato che le scuole ‘a sgravio’ hanno risentito dei processi e dei cambiamenti politici in corso, senza per questo perdere la propria natura di forma scolastica privata utilizzata a destinazione pubblica (=statale), come sottolineato da Dario Ragazzini nella prefazione al testo. In particolare, è necessario aver ben chiaro che l’arcipelago delle scuole ‘a sgravio’ non era affatto un ambito omogeneo ed uniforme, ma conteneva in sé una serie di situazioni molto differenti e di interessi contrapposti. Ciò fu possibile, nonostante si fosse cercato di stabilire un quadro formale di riferimento, con valore di vincolo e di garanzia sia per gli enti che appaltavano il servizio scolastico sia per chi lo gestiva. Sulla scorta di queste consapevolezze, la ricostruzione delle vicende di tali istituti è stata effettuata prendendo in considerazione una molteplicità di fonti documentarie: il «Bollettino ufficiale del Ministero della Pubblica Istruzione», alcune indagini statistiche ministeriali, leggi e regolamenti in materia, dati riguardanti i lasciti testamentari e i legati (offerti direttamente ai Comuni o devoluti a favore di enti gestori di scuole a sgravio), ed altro ancora. Parte di questa documentazione è stata raccolta nell’appendice al volume, suddivisa in una sezione prettamente normativa e in una di carattere documentario, cui segue un’ampia bibliografia, che comprende titoli di monografie, saggi e articoli su periodici, voci enciclopediche, documenti e fonti di archivio.
Gli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia Negli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia era in vigore quanto espresso dalla legge Casati all’art. 14, secondo cui le «scuole fondate da particolari corporazioni, da associazioni private 1 o da privati individui a benefizio del pubblico, saranno tenute in conto ed a sgravio totale o parziale degli obblighi del Comune, sempreché siano mantenute in conformità delle leggi» (p. 17). Un successivo regolamento del 1860, all’art. 149, specificava che «per essere dichiarate a sgravio le scuole debbano essere già istituite [ciò] suggerisce l’idea che i Comuni utilizzino risorse esistenti ma non attivino forme ex-novo indirizzate allo scopo, utile in fase di attuazione della nuova disposizione nazionale in materia di istruzione, ma destinato a scomparire quando si fossero superate le iniziali difficoltà» (p. 18). In altre parole, le scuole a sgravio pre-esistenti all’Unità venivano riconosciute per la funzione di “supplenza” da loro svolta, in quei luoghi dove ancora lo Stato non era riuscito ad aprire proprie scuole. A questo si aggiunge il fatto che «la logica dello sgravio era basata su presupposti per i quali era difficile richiedere agli enti gestori il rispetto di buoni parametri retributivi e di scelta degli insegnanti: se il Comune ricorreva allo sgravio era anche per ottenere un servizio a costi minori e se l’ente gestore offriva servizi ai Comuni era anche perché poteva farlo a costi minori» (p. 22). Nell’art. 14 del medesimo regolamento venivano indicate le tipologie di enti deputati a gestire tali istituti: si trattava di corporazioni, associazioni private e privati individui, ovvero le medesime realtà nominate nella Casati, anche se, a dire di Gori, non vennero adottate le necessarie accortezze terminologiche e giuridiche, riguardo a quanto dichiarato, tanto da comportare problemi di carattere interpretativo ed applicativo. Infatti, vennero realizzate forme di gestione scolastica autonome ed indipendenti rispetto alla normativa nazionale, comportando una certa disomogeneità interna alla stessa realtà delle scuole a sgravio. Qualche anno più tardi, l’art. 27 del regolamento n. 5292 del 16 febbraio 1888 avrebbe stabilito i requisiti necessari per l’istituzione e la gestione di una scuola a sgravio, in conformità alle leggi nazionali. Infatti, le scuole a sgravio dovevano rispettare i seguenti criteri: «il carattere di gratuità dell’istruzione elementare, la necessità dei titoli di abilitazione per il personale insegnante, la conformità per orari, programmi e Monte pensioni alla normativa nazionale. Veniva infine lasciata al singolo ente la facoltà di nominare il personale insegnante» (p. 20). Nel 1895 un nuovo regolamento stabilì che, per istituire scuole a sgravio, fosse necessario ottenere “il previo assenso del Consiglio Scolastico Provinciale” e che gli enti gestori dovessero essere enti morali. Quest’ultima scelta può essere interpretata, a dire di Gori, come il tentativo di avviare un processo di riordino e di controllo della questione. Del resto, va anche ricordato come molti di questi enti morali erano Opere Pie, ovvero corpi morali volontari, costituiti inizialmente per offrire forme di beneficenza di carattere religioso, ma progressivamente soggetti ad un processo di laicizzazione, che li fece trasformare in istituzioni pubbliche di beneficenza, come dimostrato dalla normativa dell’epoca (si veda, a tal proposito, quanto espresso nelle pagg. 27-34). Il regolamento del 1895 non specificava, però, le procedure da adottare; ciò permetteva di lasciare spazio all’accordo fra le parti, ovvero fra Comune, ente gestore e Consiglio Provinciale Scolastico, in maniera tale che ogni decisione presa in merito rappresentava un caso a sé stante e il risultato di una prassi locale, che il Consiglio Provinciale Scolastico si limitava a ratificare. Nel medesimo regolamento rimaneva non risolta la questione della nomina degli insegnanti nelle scuole a sgravio, mentre veniva riconosciuta a tali istituzioni la possibilità di essere sede d’esame. Durante l’età giolittiana… La prima disposizione di legge che si occupò di scuole a sgravio fu il R.D. n. 45 del 19 febbraio 1903, che all’art. 12 riconosceva le scuole tenute da corpi morali a sgravio totale o parziale dei comuni, eliminando, così, la possibilità che esse potessero essere rette da soggetti privati. Inoltre, con questo decreto venne introdotto l’istituto della convenzione fra municipi e corpi morali, da sottoporre all’approvazione del Consiglio Provinciale Scolastico, esprimendo, così, secondo Elisa Gori, la necessità di un maggiore controllo ad opera del potere statale. Queste novità vanno lette in relazione al clima politico e storico dell’epoca, in cui venne approvata la legge n. 103 del 29 marzo 1903, nota come “legge delle municipalizzazioni”, che prevedeva la possibilità per i comuni di 2 assumere la gestione diretta di alcuni servizi di pubblico interesse. Con il R.D. n. 45 del 19 febbraio 1903, noto come legge Nasi, «le scuole elementari a sgravio diventano istituti di uso pubblico non più disciplinate dalle norme degli statuti dei singoli enti, ma da leggi e regolamenti generali, rispetto ai quali gli enti non potevano introdurre modifiche o limiti» (p. 40). Un successivo regolamento del 1908 dedicava alle scuole a sgravio sei articoli, in cui vennero menzionati l’iter da affrontare per la stipula delle convenzioni, i nuovi enti abilitati a gestire questo tipo di scuole (come i Regi Conservatori femminili e altri istituti sottoposti alla tutela statale) e lo stato economico degli insegnanti. Quest’ultimo rappresentava un tema di discussione aperto, come dimostrato da alcuni articoli apparsi in quegli anni sulla rivista magistrale «I diritti della scuola», poiché l’elasticità dei regolamenti emanati fino ad allora e il potere dei singoli accordi stabiliti fra le parti coinvolte avevano finito per creare situazioni di disparità fra i maestri delle scuole a sgravio e i colleghi delle scuole pubbliche (cioè statali) elementari, non rispettando quanto previsto dalla normativa allora vigente. Gori rinvia il lettore alle disposizioni emanate dallo Stato italiano in merito agli stipendi dei docenti e al Monte pensione, come ricordato nelle pp. 44-47 del volume. Per quanto riguarda la diffusione delle scuole a sgravio in età giolittiana, l’autrice ha preso in considerazione i dati contenuti in due articoli del 1906 non firmati apparsi sulla rivista «Scuola Italiana Moderna», e i dati dell’inchiesta sulla situazione della scuola elementare svolta da Camillo Corradini negli anni 1908-1910, allora Direttore Generale presso il Ministero della Pubblica Istruzione. Gli articoli della rivista bresciana facevano riferimento al progetto di regolamento finanziario esecutivo della legge Orlando, quindi, sottolinea Gori, «si può ipotizzare che si trattasse dei dati ricavati dalle classificazioni delle scuole spedite dai prefetti, in qualità di responsabili dei Consigli Scolastici Provinciali» (p. 50). La relazione Corradini, invece, si riferiva all’anno scolastico 1905-1906 ed aveva lo scopo di rappresentare uno “strumento di pressione” a favore della proposta di avocazione statale delle scuole elementari. Dagli articoli di «Scuola Italiana Moderna» emergeva il fatto che non vi fosse una distribuzione omogenea delle scuole a sgravio sul territorio italiano, poiché il maggior numero si contava in tre regioni: il Piemonte e la Toscana (grazie anche alla tradizione scolastica preunitaria a favore di una diffusione capillare della scuola elementare), cui seguiva la Sicilia (grazie al numero significativo di scuole gestite dalle Serve di Maria). Le scuole a sgravio, poi, interessavano in maniera rilevante l’istruzione femminile. Dall’inchiesta Corradini si rileva, poi, che le scuole a sgravio rappresentavano su base nazionale l’1,4% delle istituzioni scolastiche, ovvero 889 scuole su 63.618 scuole pubbliche elementari; di nuovo, si ripresentava una distribuzione territoriale disomogenea, con forti punte di presenza in alcune zone del Nord Italia (province di Novara, Torino e Genova) e in Sicilia (Palermo e Catania). Secondo quanto espresso da Elisa Gori, tutto ciò va letto tenendo conto della storia, della sensibilità politica, sociale ed educativa dei territori in questione, come del resto già emerso negli articoli di «Scuola Italiana Moderna». Il nucleo critico della relazione Corradini era rappresentato da quattro questioni: molte scuole a sgravio continuavano ad essere gestite da associazioni o da corporazioni non erette in enti morali e da privati cittadini, gli enti gestori erano prevalentemente confessionali, la pratica della convenzione con i Comuni era poco diffusa (benché obbligatoria per legge), mentre il trattamento riservato agli insegnanti era molto vario, sia in termini di attribuzione di incarichi sia in termini di retribuzioni. In questo senso, conclude Gori, «(…) le singole e diverse esperienze locali delle scuole a sgravio erano difficilmente riconducibili ad una unica forma riconosciuta e valida per tutti e (…) intervenire a riguardo avrebbe significato entrare all’interno di complicate e assestate mediazioni tra poteri pubblici e enti filantropici e caritativi, tra riconoscimento di bisogni e modalità di soddisfarli, tra doveri istituzionali e vincoli di bilancio, fra intenti di istruzione e tradizioni di assistenza» (p. 75). Del resto, la legge Daneo-Credaro del 1911, con cui si procedette all’avocazione delle scuole elementari allo Stato, non risolse la questione delle scuole a sgravio, ma lo Stato, in quanto successore dei Comuni nella gestione del sistema di istruzione elementare, doveva rispettare le convenzioni stipulate precedentemente fra municipi ed enti morali. Durante il Fascismo… Nel corso degli anni Venti, sintetizza Gori, «vengono riconfermati i caratteri propri dell’istituto già emersi nella normativa dell’800: la gratuità e l’apertura a benefizio del popolo sono ormai dati per certi, il difficile problema della tipologia degli enti autorizzati resta luogo di scontro e di ambiguità, la medesima condizione di incertezza persiste per la prevista stipula della convenzione, infine il tema del trattamento economico e giuridico del personale insegnante risulta ampliato e in parte approfondito» (p. 76). A questo tipo di considerazioni, l’autrice fa seguire un excursus sui ministri della Pubblica Istruzione (poi Educazione Nazionale) durante il Ventennio fascista e le principali disposizioni da loro adottate (pp. 76-90). Le prime novità in merito alle scuole a sgravio vennero introdotte già nel 1923, con il R.D. n. 2410 e nel 1926 con il R.D. n. 1125. Infatti, il primo provvedimento qui citato ruppe il monopolio esclusivo degli enti morali come enti gestori di questa tipologia di scuole, perché venne prevista la figura delle “istituzioni” (non definita in maniera chiara) come enti interessati ed abilitati alla gestione di scuole a sgravio. La IV sezione del Consiglio di Stato dichiarò, con una sentenza del 13 maggio 1925, che tale dizione esprimeva la volontà del legislatore di allargare la portata della precedente normativa, risalente al 1903, confermando la necessità che tali istituzioni ottenessero il necessario riconoscimento giuridico, a garanzia del loro carattere pubblico. In questo senso, venne prevista la necessità di stipulare una convenzione per l’accettazione delle scuole a sgravio, prevedendo un contratto fra gli enti gestori e il Regio Provveditore. Il R.D. del 1926 apportò alcuni “ritocchi” alle disposizioni gentiliane, introducendo condizioni più favorevoli agli enti gestori, per i quali non venne più richiesto l’obbligo di riconoscimento giuridico. Con il successivo R.D. n. 1297 del 26 aprile 1928 e la circolare n. 72 del 26 settembre 1928 si aprì una nuova fase per le scuole a sgravio, poiché vennero previste due tipologie di tali istituzioni: in alcuni casi, esse “potevano” essere dichiarate a sgravio degli obblighi delle amministrazioni scolastiche e dei Comuni, in altri casi “dovevano” essere accettate a sgravio degli obblighi medesimi. Nella prima fattispecie rientravano quegli istituti mantenuti da associazioni, enti o privati sulla base di una semplice convenzione, mentre nella seconda fattispecie rientravano le scuole che i conservatori e simili istituti erano obbligati a mantenere in forza di tavole di fondazione, di rescritti, di patenti, di ordini sovrani, cioè per legge. La convenzione per tutte le scuole a sgravio riguardava solamente problemi di carattere pratico e finanziario, non questioni di carattere didattico ed educativo. Per quanto riguarda la nomina degli insegnanti, il medesimo R.D. 1297 del 1928 ricordava che essa spettava di diritto all’ente gestore; i docenti nominati avevano il dovere di tenere una condotta morale incensurata e di possedere un idoneo titolo di abilitazione all’insegnamento. I dati sulla diffusione delle scuole a sgravio nel periodo fascista sono reperibili sia all’interno degli undici volumi di statistiche sulla situazione dell’istruzione e dell’insegnamento pubblicati nel 1931 dall’ISTAT, sia in quanto riportato dagli «Annali dell’istruzione elementare». Va ricordato che nei dati ISTAT le scuole a sgravio non vennero considerate di per se stesse, ma come una delle cinque forme di classificazione delle scuole elementari (che comprendevano, oltre alle scuole a sgravio, le scuole classificate, le scuole non classificate, le scuole sussidiate e le scuole private). Si era verificata una netta diminuzione del numero di scuole a sgravio rispetto a quanto rilevato dall’inchiesta Corradini; infatti, da 889 scuole nell’anno scolastico 1905/1906 si era passati a 316 scuole nell’anno scolastico 1926/1927. Addirittura in Piemonte sembrava che esse fossero scomparse nel giro di un ventennio. Elisa Gori ipotizza che molte delle scuole considerate a sgravio nell’età giolittiana fossero poi confluite, in era fascista, in una delle altre classificazioni possibili delle scuole elementari, come, per esempio, le scuole sussidiate o le scuole non classificate. Inoltre, va tenuto conto che «(…) dopo la legge sull’avocazione allo Stato dell’istruzione elementare, l’istituto dello sgravio non rimane unica prerogativa delle scuole rimaste alla amministrazione comunale ma viene conservato quale ‘utile’ e praticato modello anche per quelle scuole amministrate a livello centrale, in una misura che, per mancanza di informazioni e dati, è difficile comparare con le scelte comunali precedenti» (p. 104). Bisogna, inoltre, ricordare che in un articolo del periodico «Annali dell’istruzione elementare», pubblicato nel 1932 a firma di G. Chiaromonte, vennero riportati i risultati di un’inchiesta sulla diffusione in Italia dell’istituto dello sgravio nell’anno scolastico 1929-1930, confermando quasi del tutto i dati percentuali attestati dall’indagine Corradini nel ventennio precedente. Il 1° luglio del 1933, il R.D. n. 786 dichiarò il passaggio allo Stato delle scuole elementari dei comuni autonomi, allo scopo di concludere il disegno di accentramento statalistico portato avanti già negli anni precedenti. All’art. 30 veniva sottolineato che gli oneri relativi al pagamento degli stipendi dei maestri elementari erano di competenza dello Stato, con riferimento a quanto stabilito nelle convenzioni stipulate fra i Comuni e gli enti gestori delle scuole a sgravio. Queste ultime continuarono a persistere negli interstizi lasciati aperti, secondo Elisa Gori, da un’attuazione delle leggi che, nei fatti, si rivelava spesso operativamente debole ed inconsistente, lasciando così «tempi e spazi disponibili per possibili compromessi ed ingerenze di libere iniziative di privati, che dopo il 1929 furono di natura soprattutto confessionale» (p. 114). Nel frattempo, la II sezione della Direzione Generale per l’Istruzione elementare aveva preparato una relazione sulle scuole a sgravio, occupandosi sia delle retribuzioni dei loro insegnanti sia delle modalità di riconoscimento dello sgravio. Queste ultime dovevano essere il frutto di un controllo più diretto, efficace ed omogeneo. La relazione in questione venne discussa, nel 1934, dalla IV sezione del Consiglio Superiore dell’Educazione Nazionale, che propose la sostituzione della denominazione “scuole a sgravio” con l’espressione “scuole riconosciute ad ogni effetto legale”. Fu il consigliere Dini a proporre la sostituzione dell’espressione “scuole a sgravio”, da lui definita “bruttissima”, perché presupponeva che tali scuole fossero dirette a esonerare lo Stato dall’obbligo di fornire l’istruzione elementare a taluni raggruppamenti sociali. Questa modifica, secondo Gori, «(…) sembra voler nascondere, o mitigare o, comunque, depotenziare una tipologia di scuola elementare percepita come non corrispondente all’idea di politica scolastica educativa del regime» (p. 117), perché non poteva soddisfare le caratteristiche proprie della scuola fascista. In ogni caso, le scuole a sgravio continuarono a permanere perché le motivazioni di carattere finanziario che avevano portato ad accettare la presenza di questi istituti “surrogatori” continuavano a prevalere sulle motivazioni di tipo politico; inoltre, i rinnovati rapporti con la Chiesa in seguito ai Patti Lateranensi influirono sul mantenimento delle scuole a sgravio di carattere confessionale. Con il R.D. n. 1196 del 1935 venne dato valore legale alla proposta della IV sezione del Consiglio Superiore, come attestato dall’articolo 2: «le norme in vigore che si riferiscono a scuole elementari classificate, non classificate e a sgravio, si intendono rispettivamente applicabili alle scuole di Stato, alle scuole rurali e alle scuole parificate» (p. 118). In questo senso, l’istituto della parificazione, nato nel 1925 per garantire ad alcuni istituti superiori non statali il riconoscimento del titolo di studio rilasciato, venne esteso anche alla scuola elementare, modificando e/o sostituendo la scuola a sgravio, senza però modificarne la natura. Ne consegue che, secondo Elisa Gori, la nuova dicitura serviva solamente a esplicitare la dipendenza dell’ente gestore dallo Stato, quale unica autorità deputata al riconoscimento di tali istituti ad ogni effetto legale mediante apposita convenzione. I dati ISTAT sull’insegnamento elementare, pubblicati nel 1941 e relativi all’anno scolastico 1936- 1937, non riportavano né il numero totale delle scuole né il numero di classi parificate, ma solamente il numero degli studenti e degli insegnanti. In particolare, si era verificato un aumento degli studenti delle scuole parificate di 15.000 unità nel corso degli anni ’30, segno indiretto, per Elisa Gori, di un significativo aumento delle scuole parificate durante quel periodo. Le regioni con il maggior numero di studenti nelle scuole parificate erano il Piemonte, la Toscana e la Sicilia, mentre Abruzzi, Molise, Lucania e Calabrie presentavano un risultato pari a zero. La maggior parte di questi studenti erano femmine e il loro numero complessivo rappresentava una percentuale molto bassa rispetto al numero complessivo di alunni delle scuole elementari italiane. Sulla soglia degli anni Quaranta… Nel 1939 il Ministero dell’Educazione Nazionale mostrò nuovo interesse per le scuole parificate (già scuole a sgravio), inviando tre circolari ai Regi Provveditori, allo scopo di conoscere la diffusione della parificazione e l’eventuale possibilità di ridurne la presenza. Queste tre informative, spedite il 16 febbraio, il 20 giugno e il 30 agosto del 1939, sono ora conservate presso l’Archivio centrale di Stato di Roma. Benché non fosse stato possibile ottenere una copertura dell’indagine che coinvolgesse tutte le province, emerse però il riconoscimento della necessità del servizio offerto dalla scuola parificata, la cui riduzione avrebbe comportato l’apertura di nuove scuole statali. I dati relativi a questo periodo storico sono ricavabili dall’inchiesta nazionale commissionata dall’ispettore Senesi, che dal novembre 1940 al maggio 1941 si occupò delle scuole elementari parificate. La relazione conclusiva dell’indagine riportava, nella prima parte, informazioni sulla realtà di tali istituti e sulla loro diffusione, mentre nella seconda parte comprendeva osservazioni e commenti degli autori dell’indagine. Innanzitutto, si rilevò un aumento delle classi elementari parificate di 1091 unità rispetto alle rilevazioni di Chiaromonte nell’anno scolastico 1919-1930. Inoltre, erano cambiate le regioni con la maggior presenza di questo tipo di scuole: infatti, non erano più il Piemonte e la Sicilia, ma il Lazio e la Campania. Nell’interpretazione data da Elisa Gori, quest’ultimo cambiamento «(…) si spiega almeno in parte, nel significato e nel valore stessi della modifica della natura dello sgravio rispetto a quella della parificazione. Se infatti la centralità della storia e dell’origine di ogni singolo istituto a sgravio viene annullata rispetto al valore del riconoscimento statale, e della stipula della convenzione, allora è lecito pensare che alcune scuole fossero naturalmente destinate ad uscire da questo circuito, così rinnovato, e che molte altre potessero invece parteciparvi, grazie a differenti motivazioni e volontà» (p. 128). Inoltre, va rilevato che «(…) la maggior parte degli enti interessati a questa pratica, erano da sempre tradizionalmente di origine confessionale, si potrebbe ipotizzare che la nuova forma della parificazione abbia favorito, in misura direttamente proporzionale alla richiesta, questo genere di enti. In questo caso sono emblematiche le cifre di Lazio e Campania, dove storicamente è marcata la presenza ecclesiastica» (p. 128) Un dato di curiosità: mentre in Toscana la frequenza femminile delle scuole parificate continuava ad essere superiore del 20% rispetto a quella maschile, in Lazio e Campania accadeva il contrario, ovvero si registrava una frequenza maschile superiore a quella femminile rispettivamente del 10% e del 36%. Il numero di insegnanti era aumentato rispetto alla rilevazione precedente, mentre il rapporto fra docente e numero degli alunni si attestava su una media di 1 a 32. Occorre anche sottolineare che nella prima parte dell’inchiesta Senesi non veniva citata la denominazione delle singole scuole prese in considerazione, «(…) segno di una varietà di condizioni di fatto difficili da ricondurre a tipologie standardizzate o addirittura non aderenti alle norme previste» (pp. 129-130). Nella seconda parte dell’inchiesta Senesi emergeva che la maggior parte del corpo insegnante delle scuole parificate era costituito da personale religioso, pochissime erano le scuole che impiegavano esclusivamente insegnanti laici. Inoltre, si era riscontrata una negativa continuità fra le scuole a sgravio e le scuole parificate per quanto riguarda il trattamento economico dei maestri e il loro stato giuridico. In particolare, si segnalava che gli insegnanti laici delle scuole parificate «(…) percepiscono uno stipendio inferiore rispetto a quello dei colleghi impiegati nelle scuole elementari statali, pur svolgendo – nella maggior parte dei casi – orari molto più lunghi, e che spesso la loro retribuzione non avviene unicamente in denaro ma in altre forme, infine che la loro assunzione non è regolata da alcun contratto o nomina legale» (p. 131). Inoltre, la qualità del corpo docente non era garantita da una selezione sulla base di concorsi pubblici, ma «(…) in ragione di altre scelte e motivazioni, con la conseguente possibilità di nomina di personale sprovvisto dei requisiti minimi necessari, nonostante la normativa» (p. 132). Permaneva come criterio di indagine quello della necessità della presenza di scuole parificate, in relazione alla lontananza di queste dalle scuole statali o all’impossibilità, da parte di queste ultime, di accogliere un numero superiore di studenti. Nel corso dell’inchiesta vennero, però, rilevati casi di classi parificate che non ottemperavano al sopraccitato criterio di necessità o che ammettevano solo particolari categorie di alunni, magari dietro il pagamento di una retta. Le scuole parificate rilevate erano 340, corrispondente all’1% delle possibili tipologie di scuole elementari; le aule a disposizione erano 1389 e le classi 1610, con un decremento rispetto alle precedenti rilevazioni, benché Senesi non avesse specificato in base a quali criteri fossero state date le definizioni di aula e di classe. «L’unico confronto possibile con il numero di classi, relativo ai dati pubblicati da Chiaromonte, evidenzia una rilevante diminuzione del fenomeno sgravio/parificazione di oltre 472 unità, per il periodo di tempo compreso fra gli anni scolastici 1929-1930 e 1945-1946» (p. 138). A questo si aggiunge il fatto che, secondo Elisa Gori, «(…) la maggiore distribuzione di scuole parificate per regione non corrisponde alla maggiore frequenza di alunni; mentre infatti nel primo caso le regioni sono, in ordine, Toscana, Lazio e Piemonte, nel secondo caso la graduatoria non ha né le stesse presenze, né il medesimo ordine: il Piemonte cede il passo alla Campania, Lazio e Toscana invertono le loro posizioni» (pp. 138-139). I risultati dell’inchiesta Senesi vennero successivamente utilizzati per predisporre una serie di documentazioni ministeriali, conservate presso l’Archivio centrale di Stato di Roma, che riportavano possibili modifiche ed aggiunte da inserire nello schema di convenzione previsto dal Ministero per le scuole parificate. Vennero, nello specifico, presi in considerazione «(…) gli aspetti relativi all’inquadramento del personale insegnante, in relazione alla applicazione della nuova legge del 1 giugno 1942, n. 675. Il personale delle scuole parificate, già a sgravio, diviene impiegato dello Stato a tutti gli effetti. A questo scopo, una successiva circolare del Ministero indirizzata ai R. Provveditorati del regno chiede di inviare “con cortese sollecitudine” un elenco degli insegnanti, al fine di poter stabilire a quale grado ciascuno di essi debba essere iscritto ai fini della determinazione dello stipendio» (p. 135). Si intendeva, quindi, devolvere un contributo statale per le scuole parificate fissato a percentuale; inoltre, i loro insegnanti dovevano obbligatoriamente iscriversi al Monte pensioni. Il 18 settembre del 1942 il Ministero emanò un’altra circolare, che aveva per oggetto la Convezione- tipo per la parificazione di scuole elementari; una successiva circolare, del 9 ottobre 1944, spiegava che bisognava «(…) evitare che la parificazione diventi “una vera e propria forma di soccorso a scuole private” e limitarne l’istituzione a situazioni di evidente bisogno e necessità perché “si dà perfino il caso di scuole parificate, sorte in Comuni dove sono in piena efficienza le cinque classi elementari di Stato, che fanno aperta concorrenza a queste ultime per assicurarsi un certo numero di alunni, dato che le classi comuni son più che sufficienti ad accogliere tutta la popolazione scolastica locale”» (p. 136).
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