la Repubblica, 29 giugno 2023
Intervista ad Antonio Scurati
«Poggi dove vuole, senza formalità. Questa è una tana». Lo studio milanese dove Antonio Scurati scrive i suoi romanzi, è un luogo sobrio fino all’essenziale. Tanti libri, tavolo di lavoro, divano e un vogatore. Tutto qui.
Sugli scaffali le tantissime traduzioni dei tre libri di M.,sopra la scrivania la mappa di chissà quale capitolo del quarto volume in lavorazione. La storia di Benito Mussolini non è finita, bisogna attraversare la tragedia della guerra e arrivare a Piazzale Loreto, circa un chilometro da dove siamo adesso. Ma anche nel Paese la Storia continua, purtroppo. Irrisolta o rimossa da chi oggi il Paese lo governa, oppure usata come bandiera identitaria da una sinistra che non si domanda cosa può essere, oggi, l’antifascismo. Fatto sta che dall’uscita di M. Il figlio del Secolo, appena ripubblicato da Bompiani in edizione tascabile, sono passati cinque anni, e in mezzo non ci sono state solo centinaia di migliaia di copie vendute, un successo mondiale, un premio Strega, ma anche l’avvento a Palazzo Chigi di una classe dirigente erede diretta di quella tradizione.
Nel 2018 disse proprio al Venerdì che aveva scritto M. per la caduta della pregiudiziale antifascista.
«Se non fosse stato così non avrei potuto immaginare di raccontare il fascismo dal punto di vista dei fascisti. E ciò che è successo dopo dimostra che sì, quella pregiudiziale è stata spazzata via».
Però s’è aperto un dibattito attorno ai rischi di un ritorno del fascismo.
«Temo sia una discussione fasulla. Intanto perché la parte politica che proviene dalla rielaborazione di quella storia rifiuta il confronto, mentre un vero dibattito può partire solo dall’assunzione di responsabilità e dalla colpa, dal riconoscimento che gli italiani sono stati fascisti».
È anche conseguenza del mito della Resistenza?
«In parte sì. Il fascismo è stato narrato dal punto di vista delle vittime, cosa giusta e necessaria, ma è innegabile che ciò abbiaintralciato un processo di “superamento del passato” come quello che c’è stato in Germania».
I dibattiti però si fanno almeno in due. E gli antifascisti?
«Mi pare che in molti abbiano un’attitudine narcisistica, che punta a quello che Foucault chiamava il “beneficio del locutore”: assumere posizioni estreme per ragioni autoreferenziali».
Il fascismo non torna, insomma. «No. Ed è argomento fuorviante. Il Duce è stato il fondatore del Fascismo ma anche l’inventore del populismo, vera cifra contemporanea. È questo che dovrebbe inquietarci. Il ritorno, mutatis mutandis, del populismo di Mussolini. La caratteristica di questi movimenti non è la violenza. Guardiamo a Trump, Orban e simili».
L’anima populista di Benito
vive in Meloni e Trump allo stesso modo, ergo.
«Sì, e ovunque si rafforzi l’idea di leadership fondata sul lodo “io sono il popolo e il popolo sono io”, schiacciando su posizioni antipopolari e antinazionali chi non si identifica. Si torna a dire “o con me o contro di me”, sostituendo la speranza con la paura. Come Mussolini che dal Sol dell’Avvenire passò, appunto, alla scommessa della paura».
Oggi che nessuno vuole più espropriare i mezzi di produzione, si scommette sui migranti?
«Lo schema del gioco è lo stesso.
La complessità della vita moderna viene ridotta a un unico problema, quel problema a un nemico, quel nemico a straniero invasore».
Nel processo di connessione con le masse, il corpo del leader
è decisivo.
«Mussolini fu il primo a mettere il corpo del leader al centro della scena politica. Il primo di tanti».
E il corpo di Meloni, sostenuto dal brand “Io sono Giorgia, io sono una madre”?
«Quella è appunto la scena madre. Per quanto il suo corpo sia minuto, è assolutamente centrale e per questa via comunica con il popolo attraverso fattori emozionali che innescano processi di identificazione».
Il progressismo fatica a capire l’importanza di tutto questo.
«Su questi temi l’atteggiamento di sufficienza è una stupidità.
L’errore è ragionare “esteticamente”, mentre il corpo di queste leadership non vince perché “bello” o “elegante”, vince perché è centrale».
E dopo aver vinto vuole l’egemonia culturale.
«Se parliamo di cultura in senso antropologico, l’egemonia dagli anni 80 ce l’ha il berlusconismo.
Se intendiamo invece la cultura intellettuale, letteraria, artistica, allora la volontà di imporre “per decreto” un’egemonia è un tratto autoritario ma anche velleitario.
L’egemonia matura all’interno della sfera culturale, non si conquista facendone obiettivo politico. L’arte non è priva di ideologia ma con l’ideologia si fa arte scadente».
Giordano Bruno Guerri dice che nelle retrovie è pronto un esercito di intellettuali e artisti di destra.
«La volpe e l’uva. Quando avverti il bisogno di fare annunci simili vuol dire che questo esercito non c’è.
Non esiste al momento una generazione di intellettuali e artisti di destra riconosciuta dal pubblico e dal mondo».