Il Messaggero, 29 giugno 2023
Biografie di Calipso
C’è un’immagine impressa nella mente degli studiosi dei classici. Quella di un uomo che «sul promontorio piangeva, seduto, là dove sempre con lacrime, gemiti e pene, straziandosi il cuore, al mare mai stanco guardava, lasciando scorrere lacrime». E non si tratta di un debole, uno sconfitto. Definito polytropos, «dal multiforme ingegno», polymetis, «dalle mille astuzie», è però anche polytlas, costretto a patire infinite sofferenze. Ovvero Odisseo, Ulisse, che ha finito per incarnare l’eroe per eccellenza. Quello che, vecchio e stanco, nella poesia di Tennyson ribadisce la volontà di «lottare, cercare, trovare e non arrendersi mai».
IL MITO
Perché piange? Innanzitutto perché «le lacrime degli eroi», come vengono definite nel libro di Matteo Nucci, sono una costante, un filo rosso dei miti antichi. Tutti gli eroi piangono. Non hanno timore di mostrare debolezza e dolore, legati alla loro essenza mortale. Odisseo, in particolare, piange poiché vuole tornare nella sua Itaca. Guarda il mare, ricorda. D’acqua sono le lacrime, d’acqua la distesa salata. È, l’Odissea «il poema della memoria», sottolinea Nucci. «Il passato si chiarisce a partire dal presente. E proprio chiarendo sempre più il passato, che si comincia a intravedere il futuro Quello a cui questa memoria dà luogo è il pianto». Mnemosyne, la divinità che rappresenta la memoria, è ovunque. Dai suoi amori con Zeus nasceranno le nove Muse.
IL DESIDERIO
Ma l’Odissea è anche il poema della «conoscenza attraverso la sofferenza»(pathei mathos, la definisce Agamennone), della nostalgia, del desiderio del ritorno, il nostos. Se da una parte si incentra sul viaggio, metafora della vita (lo racconta Kavafis in Itaca), dall’altra ha sempre, sullo sfondo, la volontà di tornare a casa, sfidando i venti e gli dei contrari. Dopo esser partito da Troia, dopo aver vagato per mari, fra mille avventure, Odisseo è approdato in un posto nel quale è rimasto prigioniero. Si tratta di una dolce prigionia, certo. Da otto anni, il figlio di Laerte si trova nella misteriosa e bellissima isola di Ogigia. Un “non luogo”, fuori dal mondo, in cui il tempo sembra non scorrere. Un paradiso, un posto in cui non si invecchia. Il che è anche una condanna. Dove sia, nessuno lo ha capito. Molte sono state le ipotesi. Secondo un’interpretazione, addirittura, i luoghi omerici non sarebbero nel Mediterraneo, bensì nei mari nordici, verso la Scandinavia e più su ancora.
IL LEGAME
A tenere lì Odisseo è la figlia di Atlante (o di Oceano), Calipso, «la ninfa dai riccioli belli». Abita in una grotta che si apre su meravigliosi giardini, deliziose fonti, un bosco sacro; trascorre la giornata a tessere con le sue ancelle. Il nome Calipso viene dal verbo kalupto, nascondere. Nascosta è lei e l’isola in cui vive, ma nascosto finisce per essere Odisseo. «Dea tremenda», la chiamerà poi. Tremenda nella sua volontà di non lasciarlo andare. Lo ha raccolto naufrago, lo ha salvato, se ne è innamorata, non si sazia mai di lui e non ha intenzione di lasciarlo libero.
L’eroe, invece, dopo l’idillio iniziale è cambiato. La notte dorme “per forza” vicino alla bellissima ninfa, che gli è venuta a noia – incostanza maschile – e non gli piace più. «Non ti adirare» – risponderà con un misto di ipocrisia e sincerità a Calipso, che gli promette l’immortalità – «so bene che al tuo confronto la saggia Penelope per aspetto e grandezza non val niente a vederla: è mortale e tu sei immortale e non ti tocca vecchiezza. Ma anche così desidero e invoco ogni giorno di tornarmene a casa». Viene il dubbio che siano innanzitutto la smania di vagare, l’inquietudine da marinaio, i suoi fantasmi a fargli preferire la fuga.
Certo potrebbe piangere in eterno, se non fosse che a un certo punto gli dei si riuniscono e decidono in suo favore. È stata la glaucopide Atena a intercedere per lui, pregando il padre Zeus, ma era stato stabilito dal Fato che tornasse a casa. Zeus invia il messaggero Ermes a Calipso. E lei, innanzitutto, si sdegna. «Siete crudeli, voi dei, gelosi più di ogni altro, che invidiate alle dee il giacersi con uomini apertamente, se si procurano un caro marito». Rivendica di aver «accolto e nutrito Odisseo», di volerlo «fare immortale». Ma deve cedere. «Un altro dio non può trasgredire o render vano un pensiero di Zeus egioco, vada pure in malora (Odisseo), se egli lo spinge e comanda sul mare infecondo». Si reca dall’amante, lo esorta a «non rovinarsi più la vita», bensì a tagliare i tronchi degli alberi e costruire una zattera. Gli darà cibo e acque, indicazioni. Lui non si fida, tanto che Calipso lo chiama «furfante». Ha diverse ragioni.
L’ADDIO
Tornati nella caverna, la ninfa fa ancora un tentativo, preannunciandogli le terribili sofferenze che lo aspettano. Non serve, ma i due «goderono l’amore giacendosi insieme». È la loro ultima notte. Poi Odisseo costruisce la zattera, che Calipso riempie di doni. Nella generosità, come nel reiterato sforzo di trattenerlo, è molto femminile. Gli manda persino «un vento propizio». E poi rimane lì, sull’isola, sola. Lui parte. Senza voltarsi indietro. Forse, sono solo le lacrime, il dolore a redimerlo.
Alessandra Necci