Il Messaggero, 29 giugno 2023
Intervista a Pupi Avati
Che cos’è il cinema per lei?«Il cinema è stata una grande occasione per dire chi sono ma anche per produrre un’infinità di delusioni, di insofferenze, di rammarichi, di pentimenti. Ha riempito totalmente la mia esistenza».In che cosa consiste la fatica più grande del suo mestiere?
«Consiste nel riuscire a coniugare quel che è l’elemento creativo della storia, con il budget».
Ad inizio carriera, lei è stato anche povero, senza lavoro. Che cosa le ha insegnato quella stagione della sua vita?
«Io sono nelle stesse condizioni economiche, se non peggiori, di quando ho iniziato. Perché fare il cinema che faccio io ha un prezzo elevatissimo».
La più bella battuta tra i suoi 53 film.
«Nel film Regalo di Natale, la vigilia in cui cinque uomini si trovano a giocare una partita a poker. Carlo Delle Piane ha una battuta più o meno con questo senso: “Come saremmo tutti migliori o cercheremmo di esserlo se ci fosse una donna tra di noi.."».
La frase indimenticabile della sua infanzia che l’ha accompagnata negli anni?
«Per sempre. È una locuzione avverbiale che si applica dall’infanzia all’adolescenza. Poi sparisce, perché la ragione fa sì che ci si convinca che non esiste “per sempre”. Ora che sto invecchiando si sta sta tornando nel mio lessico».
I figli: quale insegnamento principale ha dato loro?
«Aver insegnato loro a cercare di essere quello che sono nel modo più corretto e sobrio. Giocando in regola si perdono quasi tutte le battaglie ma si vince la guerra».
Sono ferite inguaribili i distacchi dalle persone amate?
«Sono ferite che non si rimarginano. Aver perso mia madre vent’anni fa, l’ho ancora dentro di me. Ancora non riesco a perdonare mia madre di essersene andata. La stessa cosa io immagino, adesso che sono arrivato a questa età, nei riguardi del dolore che produrrò, senza volerlo ma ineluttabilmente, in chi mi sopravviverà».
Il dolore che razza di diavolo è?
«È terapeutico, è l’elemento fondamentale per ogni tipo di creatività, per ogni genere di sensibilità. Le persone che conosco, le migliori, sono tutte transitate attraverso il dolore, incominciando da Dante Alighieri, che non ho conosciuto personalmente, ma con il quale ho avuto una frequentazione di un ventennio (Dante, il suo penultimo film, ndr).
Le è capitato di imbattersi in critiche che ha considerato ingiuste?
«Non appartengo alla “amichetteria” romana – cito Fulvio Abbate – cioè al mondo che conta delle persone che piacciono, e questo ha fatto sì che io mi sia considerato da sempre emarginato. Questo ha rappresentato anche un punto di forza: la necessità di portare avanti un mio modo di vedere, che è sempre alternativo».
La sua parola più bella?
«Vulnerabilità».
Qual è quella che detesta di più?
«Tutti i sinonimi che riconducono all’opportunismo, e anche l’incompetenza. Io vengo da un mondo remoto dove la competenza aveva un ruolo determinante e adesso mi sembra stia sbiadendosi sempre di più».
Che cosa le piace nel comportamento del prossimo?
«Mi piace la bontà e la timidezza, il senso di inadeguatezza, la vulnerabilità».
Che cosa detesta del prossimo?
«L’assertività, l’egotismo, la supponenza: tutti quelli che sono i sinonimi che hanno a che fare con un’auto-appagamento».
Un’amicizia, un sentimento unico e irripetibile, mi dice per chi è?
«Cicci Foresti, un mio amico unico, irripetibile, ineguagliabile».
Il mistero, l’occulto la affascinano da sempre. Perché?
«Come dicevano i gesuiti “datemi un bambino i primi cinque anni della sua vita e sarà nostro per sempre”. Io sono vissuto quei 5 anni in una casa di campagna, dove c’erano delle donne che raccontavano delle favole orrorifiche e questo mi ha affascinato sempre di più. È bellissimo spaventare, ma ancor più bello essere spaventati».
Nella scelta dei temi dei film c’è un criterio che li lega tutti?
«Sì, perché il film assomiglia a quello che sono io nel momento in cui lo faccio. Se vado a rivedere nell’ordine cronologico in cui furono realizzati i 53 film io potrei raccontare la storia della mia vita, dei miei rapporti con il mondo, con le persone e con le cose. Se ero felice o infelice diventavano in qualche modo delle esemplificazioni di quello che io sono stato».
Qual è il sentimento che la coinvolge di più?
«È il sentimento di gioia che produco negli altri. La cosa più bella e quando posso fare una telefonata a una persona completamente rimossa, dimenticata. Sto citando l’ultimo caso, quello di Edvige Fenech, attrice. Proporle un film, una storia vera e darle questa gioia immensa per cui senti che lei piange e ride assieme perché non ci crede: ecco, in quel momento dare gioia è infinitamente più vero che ricevere gioia».
I suoi attori recitano o interpretano? E lei come li guida?
«I miei attori vivono: mi sento di dire che è una terza strada, che cerco di insegnare nelle scuole di recitazione. Non si recita si è, attori non si diventa, ma si nasce come i poeti».
L’attore o l’attrice che ha amato di più?
«L’attore è probabilmente Lino Capolicchio perché ha capito delle cose mie che solo una grande sensibilità avrebbe potuto cogliere. Come attrice Mariangela Melato».
Il suo cassetto dei ricordi è un enorme miniera alla quale attingere: è la sua fonte maggiore di ispirazione?
«Buddha dice che l’origine delle cose non la si percepisce mai, ed ha ragione. Il fatto di sapere di avere una storia dentro di te, ma non sapere in che momento e come è nata è bellissimo. Attiene al mistero, alla sacralità».
Che cos’è Bologna per lei?
«Bologna è il luogo dove è successo tutto: dove mi sono formato, dove sono cresciuto, dove ho maturato questa necessità di prepararmi per andare a combattere sul ring più importante, che era quello della Capitale. Tutti i sentimenti primari sono nati, cresciuti e sviluppati lì, ma non è la città dove si sono realizzati i sogni nella vita».
C’è stato un maestro che l’ha guidata negli atti più importanti?
«Io ho quasi sempre pensato a cosa avrebbe fatto mio padre perché è la persona che ho conosciuto meno, e tuttavia la persona alla quale avrei voluto piacere di più. E in questo ultimo film, finalmente mi sono sbloccato ed ho girato una sequenza in cui io e lui ci parliamo e gli dico tutto quello che penso».
Se avesse davanti Fellini lo ringrazierebbe?
«L’ho fatto spesso, e Federico lo sapeva bene di avere questa responsabilità di avermi praticamente rovinato la vita attraverso la seduttività del suo Otto e mezzo».
Che cosa la fa piangere Avati?
«Ormai tutto: quando si arriva alla mia età si torna ad essere quel bambino che sei stato. E sa bene che i bimbi piangono e ridono con niente. Scola diceva che si commuoveva davanti a una cotoletta».
Che consiglio darebbe a un giovane che volesse intraprendere la carriera di regista?
«Rendersi conto se ha un suo mondo, un suo tono di voce, una sua calligrafia».
Il successo è anche un veleno?
«Il successo ed il potere sono sinonimi e non c’è persona che sia arrivata al successo o al potere che io abbia visto migliorare umanamente».
Come si sopporta il peso degli anni?
«Quando hai una storia dentro di te, anche se sei già in andropausa piena, è tutto».
Come le piacerebbe essere ricordato?
«Con questa frase: “E adesso come facciamo?"».
In cinque parole, chi è davvero Pupi Avati?
«È molto quello che avrebbe voluto essere».