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 2023  giugno 29 Giovedì calendario

Intervista a Paul McCartney

«È stata una tempesta pazzesca, un turbine pazzesco, i Beatles erano nell’occhio del loro stesso ciclone, anzi negli “occhi”, perchè le tempeste erano molte ed erano molti quelli che ci guardavano». La sorte ha voluto che a reggere il testimone dell’incredibile saga dei Beatles sia rimasto Paul McCartney. Il meno tormentato dei Quattro, quello a cui è sempre piaciuto raccontare storie e aneddoti di una vita straordinaria, colui che con il passare del tempo è apparso scevro da rancori e privo di complessi, come sempre è sembrato invece l’altro sopravvissuto Ringo Starr, chiuso in un proprio mondo difficilmente decifrabile. Sono, i Fab Four, personaggi familiari dei cui si pensava si conoscesse ormai tutto, ma non era così: il libro fotografico di McCartney appena uscito in Italia per la Nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi con il titolo 1964 – Gli occhi del ciclone, finisce per chiudere (forse) il cerchio una volta per tutte, raccontando i Beatles dall’interno attraverso 275 fotografie inedite (da oggi anche in mostra alla National Portrait Gallery di Londra) scattate da Paul stesso in un anno cruciale in cui gli ancora abbastanza semplici ragazzi di Liverpool uscivano per la prima volta dai confini dopo Liverpool e Londra e Amburgo, e si esibivano a Parigi prima di partire per New York, Washington e Miami. Stati Uniti e dunque l’America intera vengono conquistati con un breve e magmatico tour, diventato la metafora dei cambiamenti in atto nella società, fra i ragazzi e le ragazze, proprio con il filtro della loro musica e delle loro personalità.
Quasi mille foto aveva scattato Paul, tutt’altro che professionali ma significative di un’atmosfera e dei suoi occhi che sorpresi e divertiti e orgogliosi guardavano il mondo. Foto conservate con cura, ritrovate durante il lockdown: e sembra impossibile che dietro tale cura non ci fosse l’indimenticabile moglie Linda Eastman, scomparsa nel ‘98 e appunto fotografa nonché compagna del marito nei Wings. «Ho una archivista che lavora con me sulle imprese fotografiche di Linda – confessa infatti Paul – e un giorno le ho detto: sai che ho fatto qualche foto nei Sessanta, chissà se ce le ho ancora. Lei mi ha risposto: sì le hai. E sapeva dov’erano. Le abbiamo guardate: lei ha contatti con un sacco di gallerie, compresa la National Portrait Gallery dove ha lavorato un po’ mia figlia Mary. Così le abbiamo fatte vedere e sono piaciute, è venuta fuori l’idea della mostra e del libro».
Vedere tante foto di gioventù dopo un periodo così lungo gli ha risvegliato i ricordi: «È stato bellissimo, sono ripiombato in quei momenti e sulle mie relazioni di allora: il nostro manager Brian Epstein e altri tipi. Erano quasi istantanee di famiglia, e riguardandole mi è piaciuto che la qualità fosse buona. Avevo scelto bene l’argomento, la composizione e l’umore dei protagonisti. Ma il loro valore non è artistico, è storico. Non voglio spacciarmi per fotografo professionista, sono contento di esser pensato come uno che è stato nel posto giusto al momento giusto».
Dieci anni durò la vita artistica dei Beatles, dal 1960 al 1970. Ma in queste pagine c’è l’uomo che si accorge di diventare divo in un anno fatidico attraverso la sua macchina fotografica, senza rinunciare ad essere il ragazzo di Liverpool. Il libro è corredato da un’analisi della storica Jill Lepore, ma soprattutto è straordinariamente vivace la testimonianza scritta dello stesso McCartney. Appare come galvanizzato dai ricordi della gioventù, della famiglia di provenienza, dei costumi d’epoca. Mai dimenticare le proprie radici, è la lezione. Nella famiglia di Paul, poi, tutti erano appassionati di fotografia: papà Jim conservava i ritagli, il fratello Mike utilizzava la fotocamera, poi ci sono state Linda e la figlia Mary, professioniste: «Quando la nostra storia ci ha portati ad Amburgo, ognuno di noi aveva la macchina fotografica, facevamo scatti in situazioni interessanti, che erano soprattutto i tour dei Beatles».
Quando esplose il fenomeno Beatles, fu come un assalto che attraversò la cultura di massa come mai nulla prima di allora: «La cosa bella è che noi lo volevamo. Eravamo stati una piccola band di Liverpool con l’ambizione di diventare una cosa grande. Volevamo la fama, e il brivido della fama che sarebbe arrivato». Alla passione per la vostra musica, teneva dietro pure il modo di vestire, il taglio dei capelli: eravate consapevoli di essere anche icone visuali? «Sì certo, fin dagli inizi abbiamo pensato al lato visuale, John veniva da una scuola d’arte, io ne ero appassionato, era parte di noi: le giacche abbinate, sembrare tutti uguali. Il taglio di capelli fu ad Amburgo, lo aveva un nostro amico e lo facemmo pure noi. Realizzammo che disegnavamo un’immagine».
Le foto in Inghilterra sono in interni, un po’ claustrofobiche. Poi a Parigi si aprono... «Eravamo come turisti, fotografavamo. Ci portavano di qui e di là, e noi scattavamo. Questa è la differenza, le mie sono immagini di gente non in posa. Facevamo un sacco di cose insieme, in tour, ci abituavamo a stare insieme». Mentre eravate a Parigi, arrivò la notizia che I Want to Hold Your Hands diventava numero uno della classifica Usa; che cosa ricorda? «Avevo sempre detto a Epstein e ai ragazzi che in America si poteva andare solo con un primo posto in classifica. Eravamo all’hotel George V e arrivò il telegramma. Urlammo, ballammo. Era ora di partire: il numero 1 apriva un sacco di porte, potevamo andare all’Ed Sullivan Show in tv. L’America era un grande premio, la casa dei film che amavamo, la casa del blues, di Elvis, Buddy Holly, Chuck Berry, Jerry Lee Lewis, e anche di James Dean e Marlon Brando».
«Partimmo, e atterrammo a New York con un’enorme quantità di gente che ci aspettava. L’auto che ci portava in centro trasmetteva la nostra musica: come dice la canzone, “If You can make it there, You can make it anywhere”. E noi eravamo lì». Da quel momento ci fu un sacco di pressione su di voi? «Sì, ma poiché eravamo idioti spiritosi, e scherzavamo fra di noi, tutto diventava più leggero, fu la nostra valvola di salvezza». La copertina del libro è una sua foto scattata mentre vi portano in giro sulla West 58th Street, con la stampa che vi segue... «Una foto fortunata perché è potente, dice tante cose: la gente corre cercando di toccare la nostra auto, noi fuggiamo. Nel libro ce ne sono tante di questo periodo, con i Beatles negli occhi del ciclone, e il ciclone sono quelli che corrono per noi».