La Stampa, 29 giugno 2023
Feriti di guerra
Per Larissa la vita fino a tre mesi fa era cercare i vivi e i morti. Aveva un allevamento a Pavlograd dove addestrava i cani a cercare cadaveri e sopravvissuti sotto le macerie. Dal 2017 collaborava con il Ministero della Difesa anche nella ricerca dei dispersi in Donbas. Poi l’anno scorso, quando è iniziata la guerra, ha moltiplicato le energie, cercato assistenti e formato squadre di supporto per aiutare i vigili del fuoco e i soldati a trovare corpi in mezzo al fumo e ai detriti dei bombardamenti. A marzo l’esplosione di un ordigno ha colpito lei che è rimasta priva di coscienza per due giorni prima di svegliarsi nel letto in cui ancora vive, distesa per gran parte della sua giornata. Per Larissa la vita, adesso, è la vista fuori dalla finestra del Centro di riabilitazione fisica e psicologica di Dnipro, palazzi in stile sovietico usurati dal tempo, le fronde degli alberi del parco antistante e il via vai di ambulanze e mezzi militari che trasportano feriti. Da un lato l’esterno che vede ma non vive, dall’altro l’interno di una riabilitazione che è ancora lontana. Dopo l’esplosione ha parzialmente perso l’uso delle gambe, attaccato al muro il suo deambulatore che però fatica ad usare. È la fatica di chi resiste ad accettare che la vita è cambiata, che le corse nei boschi non ci saranno più, che il prima è un ricordo. Nonostante gli incoraggiamenti, nonostante le rassicurazioni di fisioterapisti e psicologi che la invitano a pensare alle sue scarpe da ginnastica, al giorno in cui le indosserà di nuovo, e di nuovo camminerà nel suo allevamento addestrando cani a cercare la vita in mezzo alla morte.
Larissa, però, è ancora altrove. Lo dicono i suoi occhi che cercano il vuoto mentre intorno le voci le sembrano un rumore indistinto.
Dopo ogni trauma, insegnano gli psicologi, c’è una finestra di tempo “the golden hour” è il periodo, breve, da tre ore a tre giorni, in cui il lavoro sulla salute mentale delle persone può limitare i danni a lungo termine, l’ansia, la depressione. È il tempo in cui si consolida la memoria di un evento traumatico e in cui la memoria e breve termine può trasformarsi in memoria a lungo termine. In cui la ferita rischia di coincidere per sempre con l’identità di chi la subisce.
È anche di questo che si occupano medici, fisioterapisti, e psicoanalisti nel centro. Non solo sostenere i corpi danneggiati, amputati, feriti. Ma ricordare alle persone che accolgono che non sono sole, che il trauma si gestisce prima se condiviso. Per questo le camere dei pazienti che hanno subito danni permanenti affacciano tutte sulla sala della riabilitazione fisica. Se vogliono, tutti possono osservare gli altri attraverso i vetri, il passo in avanti di uno è il passo in avanti di tutti. La vita di uno che riparte appoggiata a un bastone, o che viaggia sulla sedia a rotelle è la vita di tutti quelli che si addestrano a abitudini che non avevano previsto, cui devono adattarsi.
L’Organizzazione mondiale della sanità stima che nei casi di persone colpite da conflitti e guerre prolungati, una persona su cinque finisca per soffrire di problemi di salute mentale come la depressione o il disturbo da stress post-traumatico. Applicata all’Ucraina, questa stima si traduce in quasi 10 milioni di persone che soffriranno di problemi di salute mentale, di cui una su quattro esposta al rischio che i danni diventino molto gravi. Per questo l’OMS sta provando a raddoppiare il sostegno alla riabilitazione di tutte le ferite del conflitto, sia quelle fisiche che quelle psicologiche, in un sistema sanitario gravemente compromesso. Secondo il ministero della salute ucraino, in 780 attacchi verificati su strutture mediche, 1.218 istituzioni sanitarie sono state danneggiate, inclusi 540 ospedali, 173 dei quali sono stati completamente distrutti, la conseguenza per i civili è che una persona su dieci non riesce ad accedere ai farmaci di cui ha bisogno.
È in un sistema medico così gravemente sotto stress che lavorano ventiquattro ore al giorno i medici ospedalieri e dei centri di riabilitazione come quello di Dnipro.
La dottoressa Alla Pivnyk è la direttrice della struttura, ha cominciato a lavorare qui nel 2020, fisioterapie ordinarie in un luogo che nasceva come polo d’eccellenza. Poi la guerra ha cambiato tutto, oggi l’80% dei pazienti che riceve viene dal fronte. Significa che arrivano con gli arti a pezzi e infezioni in corso, senza una gamba o entrambe, senza un braccio o entrambi. Il personale medico ha un’età media di 28 anni, e quando è iniziata l’invasione il suo primo obiettivo è stato cercare di spiegare loro che comprendeva l’istinto di mettersi in salvo con la famiglia, andare altrove, sfollare internamente o lasciare il Paese, ma che, per chi se la sentiva, era importante restare. Sono rimasti quasi tutti. Oggi sostengono uomini e donne mutilati, insegnano loro a mettere e togliere le protesi, a vivere con un pezzo di corpo artificiale, quando arriva. Perché anche le forniture di protesi, in un Paese che in sedici mesi conta 10 mila amputati, sta diventando un problema.
La dottoressa Pivnyk dice che l’emozione, in un posto come questo, è un pendolo. Entri spinto dalla voglia di aiutare e poi arriva un ragazzo di diciannove anni, la gamba compromessa, e lo devi guardare e dire che la gamba non ci sarà più. Le è successo una settimana fa, ha stretto la mano a Sasha, gli ha detto: lo facciamo per il tuo bene. Lui l’ha implorata: «salvatemi la gamba», e nei suoi occhi lei ha letto che avrebbe preferito morire che sopravvivere così, a nemmeno vent’anni. Gli ha fatto un sorriso, poi ha fatto cenno ai chirurghi di portare la barella in sala operatoria, si è chiusa nella sua stanza e ha pianto. Succede sempre più spesso.
Anche la stanza di Sasha da’ sulla palestra comune ma lui ancora non esce. Sbircia, scettico e pensoso, poi rimette su le cuffie e ascolta la musica. Parla poco, non guarda mai la gamba mancante e a differenza degli altri, che sono lì da più tempo, e riescono a mostrare il moncone della gamba che non c’è, il suo è coperto dal risvolto della divisa. Sugli scarponi al bordo del letto ancora il sangue rappreso del giorno dell’attacco. Uno dei due scarponi non gli servirà più.
Nella stanza accanto la sua vive Evgenii, 55 anni, ufficiale dell’esercito. Durante l’ultima controffensiva a settembre era nella zona di Izyum, il suo reggimento aspettava indicazioni dal comando sulle posizioni dei russi ma Evgenii, che ne era a capo, non riusciva a prendere il collegamento. Si è spostato per avere le coordinate e è saltato su una mina. Con la ricetrasmittente ancora nelle sue mani ha chiamato i suoi e ha aspettato una squadra di incursori per l’esfiltrazione. Non ha sentito il dolore, non ha realizzato. È svenuto per il troppo sangue perso e è entrato in coma per sette giorni. Quando si è risvegliato era nel centro di Dnipro. Si è voltato con l’istinto di alzarsi e sono in quel momento, dice, ha capito che l’istinto non corrispondeva più all’agire. Ha capito cioè di non avere più entrambe le gambe.
Evgenii dice che la paura è diversa per ognuno. Che da quando è nel centro di riabilitazione si chiede se fossero peggiori le urla della trincea o i pianti di chi non accetta la vita amputata e ogni giorno fa i conti con la psiche distrutta.
Vorrebbe tornare a servire l’esercito, anche da fermo. Vorrebbe tornare a servirlo in pace.
Evgenii dice che con la pace si può fare tutto. Si guarisce, si superano i dolori, si cambia la mente delle persone. Ancora però, a distanza di nove mesi dalla perdita delle gambe, convive col ricordo dei suoi ultimi giorni di battaglia. Dei suoi uomini sotto le esplosioni. Immobili. Che davano forma alla paura chiudendo gli occhi e facendo il segno della croce. —