La Stampa, 29 giugno 2023
Biografia di Daniela Santanchè
Il 5 luglio in aula bisognerà pure difenderla e per molti di destra sarà un faticoso adempimento, un gran sacrificio alla ragion di partito e di governo. Se alzare gli scudi per Giovanni Donzelli o Andrea Delmastro o Carlo Fidanza risultò istintivo nella logica del «sono dei nostri e dobbiamo comunque sostenerli», Daniela Santanché non si sa con esattezza di chi sia, o meglio è evidente che è solo sua, dei suoi affari, della sua carriera, della sua vita da Pitonessa, che si credeva archiviata dall’incarico ministeriale e invece torna a galla e fa inciampare la destra in una storia assai poco in linea con la filosofia degli underdog. Lei è piuttosto la regina degli overdog (si dice?), dell’overblown, dell’overdressed, personaggio favoloso a cui si deve dare atto di aver scalato il mondo di FdI senza nulla cedere agli stilemi fondativi della destra italiana: la Cinquecento di Giorgio Almirante, Teodoro Buontempo che dorme in macchina a Villa Borghese, le befane tricolori di Amalia Baccelli e tutto il dignitosissimo pauperismo che fu la cifra dell’antico mondo del MsI e di An.
Figuriamoci. Vivere da Pitonessa è da sempre il primo lavoro di Daniela Santanché, un lavoro nel quale la politica spesso è risultata solo un accessorio. Un lavoro che ha svolto benissimo a cominciare dal soprannome, che non è un’invenzione nei nemici ma uno scherzo tra lei e il suo primo marito ("Deriva da una vecchia barzelletta che in fascia protetta non si può raccontare”, spiegò lui alla radio). E sinceramente non è una novità la scoperta che quella vita esagerata è stata finanziata con operazioni disinvolte, pasticci di cassa integrazione e ristori, fornitori malpagati e dipendenti tenuti sulla corda per una busta paga di pochi euro: se ne sapeva già molto (se non tutto) anche prima di Report. Piuttosto è in apparenza difficile incastrare quello stile di vita, quelle case, quelle ville a Cortina, quel Billionaire e quel Twiga da 400 euro a gazebo, quei cappelli da cowboy, quegli sfarzi natalizi e ogni esagerazione estetico-politica dell’onorevole – il dito medio agli studenti in sciopero, il velo strappato alle musulmane fuori dalla moschea, i discorsi sulle palle di velluto dei Colonnelli di An – con la sua scalata ai vertici della destra e con il favore che ha conquistato in ogni stagione e da ogni capo, Silvio Berlusconi ma anche Francesco Storace, Denis Verdini ma anche Giorgia Meloni e in mezzo persino Antonio Di Pietro, Paolo Cirino Pomicino e Clemente Mastella.
La Pitonessa e i topolini, viene da dire. Tutti, uno dopo l’altro, scelti e ripudiati a conferma di una vocazione antitetica a ogni spirito di gruppo, partito, corrente, clan, e di una carriera consacrata in qualsiasi fase solo a se stessa. «Berlusconi è un genio» (2006), «Berlusconi ha sempre utilizzato le donne come il predellino della sua Mercedes» (2008), «Berlusconi crede fermamente nelle donne» (2013); «Ho scelto Fini, ho mollato Storace» (settembre 2007), «Fini ha perso l’anima» (due mesi dopo); «Il Ventennio non mi appassiona», «Rivendico con orgoglio di essere fascista se fascista significa cacciare a pedate nel sedere i clandestini», e l’elenco dei mordi e fuggi potrebbe continuare a definire un personaggio unico nella sua caratura, nelle sue ambizioni, nella capacità di trasferirle da un ruolo all’altro: editrice di rotocalchi, operatrice turistica, imprenditrice del bio, maratoneta a New York e specialista in crash show televisivi.
Piuttosto sembra difficile incastrare questa rutilante biografia nel perimetro definito dagli slogan della destra meloniana e soprattutto dal principio di coerenza che è stato, sempre, l’asso nella manica della premier insieme alla rivendicazione di un professionismo politico sobrio, dritto e indisponibile a cercare scorciatoie anche nei momenti più difficili. Ma è solo apparenza. In quella storia Daniela Santanché ci sta a pieno titolo, fin da quando nel 2005 conquistò la guida del Dipartimento Pari Opportunità di Alleanza nazionale ed esordì nella sua prima convention nazionale distribuendo una courtesy bag rosa al posto del solito documento programmatico. Funzionò. E fin da allora risultò chiaro che l’onorevole aveva intuito molto bene il punto debole della destra italiana, cioè il complesso di Eliza Doolittle, la voglia di indossare un bel vestito ed entrare in società dalla porta principale per farsi My Fair Lady alla festa che aveva visto solo nei film o sulle riviste.
La vita da Pitonessa di Daniela era già allora lo specchio delle brame in cui si rifletteva un pezzetto della destra e delle sue ambizioni, e dunque oggi che tocca difenderla da accuse e sospetti complicati, oggi che tocca annettersi la Maserati e la casa al Pantheon da una parte e la lesina sugli stipendi e i contributi dall’altra, c’è poco da fare. Difenderla si deve, anche se nella formula blindata dell’informativa. Le opposizioni hanno molto protestato giudicando la scelta un atto di compressione del loro diritto al dibattito, ma in realtà è a lei, alla ministra, che è stato sottratto il diritto di replica, nella consapevolezza dell’alto rischio di uno spettacolo d’aula all’insegna delle battute urticanti, esagerate, iperboliche che hanno fatto la sua storia meritando persino una pagina su Wikiquote. La ragion di governo, certo. La ragion di partito, sicuramente. Ma le ragioni della Pitonessa e il suo celebrato spirito combattente almeno questa volta vengono dopo e dovranno rinunciare ai fuochi d’artificio. —