la Repubblica, 28 giugno 2023
Quella pizza di 2000 anni fa
Non è una pizza come un’altra. Quella raffigurata nell’affresco emerso a Pompei è il fotogramma originario della pizza. L’archetipo di un cibo che è nel nostro Dna. La scoperta degli archeologi sembra proprio un messaggio inviato dal passato, che esibisce il certificato di nascita del cibo più amato del mondo. E attesta che 2000 anni fa il celebre disco di pasta era già di casa in quella che fu la Campania Felix.
In realtà, l’archeopizza pompeiana ha un doppio valore, materiale e simbolico. Ci fa vedere come era fatta la margherita prima della margherita. Quando al posto che molto più tardi sarebbe stato occupato da pomodoro, mozzarella ed altri ingredienti via via più numerosi e più ricchi, sulla pizza si metteva frutta, verdura e altre primizie. Un’ortolana d’antan. O un’antenata della vituperata pizza con l’ananas. Di fatto il prezioso vassoio d’argento rappresenta un’offerta ospitale, e ricorda quella che gli antichi romani chiamavanosatura lanx,cioè un piatto pieno di prodotti della terra destinato agli dèi. Ma il dipinto della domus pompeiana ha anche un altissimo valore storico. Perché ci mostra che, allora come adesso, la pizza è insieme contenitore e contenuto. Un hardware gastronomico compatibile con qualsiasi software. Ci si può mettere di tutto, ma rimane sempre lei. Perfino con la frutta tropicale. Perfino con gamberetti e cocco come in Costa Rica. E perfino con il kiwi come fanno in Svezia. E la testimonianza pompeiana rivela anche la natura solidale e ospitale della pizza, visto che quel vassoio luccicante, con sopra una coppa di vino ed ogni ben di Dio, costituiva la cosiddetta xenía, cioè l’offerta di cibo che si faceva allo straniero (xenos ) come dono di accoglienza. Come segno di apertura all’altro.
Gli stessi ingredienti raffigurati hanno un significato molto profondo. A partire dal vino, che era la bevanda sacra a Dioniso, il dio dell’ospitalità e dello scambio. Per finire ai chicchi di melagrana che era il frutto dell’abbondanza e della fertilità. Insomma, la protocapricciosa ha un forte valore comunicativo. Dice che offrendola si costruisce una relazione, si augura un benvenuto, un po’ come ilwelcome che noi scriviamo sulle nostre stuoie d’ingresso. Ma è anche un modo per segnalare il significato identitario di certi cibi, che alimentano nello stesso tempo il corpo e l’anima. Fanno bene alla salute delle persone e a quella della collettività. Creano solidarietà e inclusione.
Proprio quel che ha sempre fatto la pizza moderna nei luoghi dove è nata. Soprattutto nella Napoli fra Sette e Ottocento dove rappresentava il solo pasto giornaliero di un popolo abituato a tirare la cinghia e a fare colazione, pranzo e cena in dose unica. La grande scrittrice Matilde Serao la chiamava il «pronto soccorso dello stomaco». Era quindi un modo di mangiare popolarissimo, democratico, che rifletteva un’immagine da Paese della fame. Ma che non escludeva nessuno, nemmeno i derelitti. Al punto che i pizzaioli avevano inventato forme di welfare alimentare, come la pizza “oggi a otto”. Si mangiava subito e si pagava otto giorni dopo. Insomma, una sorta di credito di sopravvivenza che non si negava a nessuno. Tutto il contrario delle margherite e marinare di oggi, leggerissime impalpabili,choosy. In realtà, ogni tempo si riflette come in uno specchio nella sua pizza che ne riassume sogni e bisogni, gusti e disgusti. Ed è proprio questa capacità di adattamento all’origine della fortuna planetaria di questa icona dell’Italian food.
Che, come ci dice la pittura di Pompei, viene da molto lontano. Addirittura dalle mensae,le schiacciate di grano cotte al forno che i romani e gli antichi popoli mediterranei usavano per poggiarvi sopra i cibi. Da questi piatti commestibili, che in tempi di magra si potevano trasformare in pietanza, come racconta Virgilio nell’Eneide, derivano le nostre pizze gourmet.
Nel sottosuolo della Neapolis, la Napoli del quinto secolo avanti Cristo, sono stati trovati dei forni che hanno le dimensioni e la struttura di quelli che vengono ancora oggi costruiti dai maestri fornai, depositari di una tecnica collaudata dalla storia.
E se a Pompei quella pizza dipinta rappresentava un messaggio universale di accoglienza, c’è chi per ricevere una buona accoglienza la pizza se l’è dovuta mangiare. È il caso della regina Margherita di Savoia che all’indomani dell’Unità di Italia, per ingraziarsi gli abitanti dell’ex Regno delle Due Sicilie, chiese di assaggiare la pizza. Un’astutissima mossa politica, intercettata dal pizzaiolo Raffaele Esposito che per l’occasione inventò la pizza tricolore. E la chiamò Margherita in onore della sovrana. E qualche mese fa la signora Biden, la first lady statunitense, durante uno scalo tecnico napoletano dell’Air Force 2, ha fatto ordinare pizze per tutti.
Decisamente il proprietario della villa pompeiana ci aveva visto lungo. Perché ha commissionato l’affresco di un cibo che avrebbe fatto lastoria.