Corriere della Sera, 27 giugno 2023
Biografia di Gregorio VII
Tutto è incerto, ambiguo e affascinante nella storia del Medioevo. A cominciare dalle datazioni. Il Medioevo comincia e finisce in periodi ed età diverse a seconda dei punti di vista e dei differenti Paesi, nota Glauco Maria Cantarella nel libro, Inventario medievale. Percorsi, storie e protagonisti dell’età di mezzo, edito da Carocci. Nei manuali italiani l’età di mezzo comincia nel 476, con la deposizione di Romolo Augustolo ad opera del barbaro Odoacre. Trascurando il fatto non marginale che Odoacre era un barbaro «integratissimo» (come del resto Flavio Oreste padre di Romolo Augustolo). Altrove il Medioevo può iniziare nel 300 (Scozia), nel 400 (Galles) nel 1050 (Danimarca), nel 1150 (Finlandia). Stessa incertezza vale per la fine dell’evo di mezzo.
Non c’è un personaggio medievale che meglio di Gregorio VII consenta di comprendere l’intimo rapporto tra termini apparentemente in contrasto l’uno con l’altro come restaurazione, innovazione, rivoluzione. Quel Papa (in carica dal 1073 al 1085), conosciuto per aver costretto l’imperatore Enrico IV ad umiliarsi a Canossa (1077), è passato alla storia per essere stato un grande restauratore, un grande riformatore e un grande rivoluzionario. Ed è adesso – assieme a pellegrini, monaci, cavalieri, inquisitori, templari, eretici, ordini mendicanti e molti altri – uno dei protagonisti del raffinato libro di Cantarella, che aveva già dedicato a quel pontefice un’accurata monografia — Gregorio VII. Il Papa che in soli dodici anni rivoluzionò la Chiesa e il mondo occidentale (Salerno) – in cui, fin dal sottotitolo, aveva scelto di definirlo un «rivoluzionario». A conclusione di quel volume, Cantarella si prese la briga di calcolare l’esatta durata del pontificato gregoriano: 12 anni, 1 mese e sei giorni, 4.416 giorni, 105.984 ore, 6.359.040 minuti, 381.542.400 secondi. Questo, scrisse, «il cronometro che scandì l’avvio della modernità».
Ovviamente Ildebrando di Soana – «che di Soana non era… ma poco importa», ironizza Cantarella – all’atto dell’elezione al soglio pontificio (irregolare, come del resto irregolari furono tutte le elezioni di un Pontefice tra l’XI e il XII secolo) non poteva sapere d’essere destinato a diventare uno dei Papi più importanti della storia. E che avrebbe dato il via ad un’autentica rivoluzione capace di modificare «le strutture della Chiesa cattolica per il millennio a venire». Nelle sue intenzioni voleva essere, anzi, un restauratore. La volontà di accentuare fin dall’inizio il carattere piramidale e verticistico della Chiesa non era tra l’altro una sua invenzione. Cinquant’anni prima della sua ascesa al soglio pontificio, Poppone, arcivescovo di Treviri, aveva messo in chiaro che la superiorità gerarchica valeva come una superiorità giurisdizionale e pretendeva che ogni suo sottoposto si comportasse «come se fosse un servo».
Ma Gregorio VII si proponeva come «restauratore» di norme e procedure che, pur previste, quasi mai erano state messe in atto. In qualche caso tali norme e procedure erano state sperimentate, anche con successo. Ma con modalità assai diverse. Non esiste «una sola e unica riforma» nell’XI secolo: «Le riforme non nascono come insieme di sistema, lo diventano». Gregorio VII si propone di rendere generale e uniforme quel sistema di norme e procedure. Ed è questo il primo passo della sua «rivoluzione». Le riforme gregoriane, scrive Cantarella, «non restaurano un passato che in quanto tale, cioè in quanto essere sistemico non era mai esistito». Lo inventano. Riforma e restaurazione a questo punto si identificano e generano un clamoroso processo di innovazione. Il cui risultato è, appunto, una rivoluzione.
Quanto al rapporto della Chiesa rivoluzionata con l’Impero, per conoscerne l’antefatto si deve tornare indietro di oltre sette secoli. All’11 maggio del 330 quando fu celebrato ufficialmente il trasferimento della capitale a Costantinopoli. In realtà era da decenni, dalla riorganizzazione funzionale di Diocleziano, che Roma non era più la sede unica dell’impero. Dal 330, scrive Cantarella, Roma non aveva più il sovrano che si era trasferito a Oriente. L’Occidente ne era rimasto sguarnito, il solo restato al suo posto nella capitale fondativa era il Papa; dunque, si dissero i Papi, il sovrano doveva essere il Pontefice. E per volontà dell’imperatore, il quale «era l’unico che potesse attribuire le cariche e i regni con piena legittimità (tanto che i re visigoti, ostrogoti e franchi si rivolsero agli imperatori per essere riconosciuti come tali)». Molto tempo dopo fu creato persino un falso documento la «Donazione di Costantino» per certificare quel dato di fatto, cioè che il Papa avrebbe esercitato il potere temporale, avrebbe cioè «regnato». E lo avrebbe fatto per volontà dell’imperatore. Donazione che prese il nome di «Constitutum Constantini». La lingua in cui è scritta, afferma Cantarella, ha poco o nulla in comune con l’elegantissimo latino del IV secolo. E Lorenzo Valla nel Quattrocento fu in grado di dimostrare con relativa facilità che si trattava di un falso, come ha ben ricostruito Giovanni Maria Vian in La donazione di Costantino (il Mulino). Tuttavia, i termini giuridici stavano a significare qualcosa di preciso, cioè che si trattava di una decisione dell’imperatore formalizzata per iscritto in un atto legittimo. «Constitutum» significa proprio questo. Da quel momento si creò però un problema di «concorde convivenza» tra papato e impero.
E torniamo all’XI secolo. Gregorio VII, in piena età matura, si trova ad avere a che fare con il ventiduenne Enrico IV. Faceva notare Cantarella, nel precedente libro dedicato a Ildebrando, che Gregorio non scriverà mai a Enrico nel suo primo anno di pontificato ma «gli farà giungere tutte le principali espressioni delle sue buone intenzioni». Compresa quella di non porre problemi alla sua incoronazione imperiale. Gregorio VII ed Enrico IV non avevano la minima intenzione di confliggere fra loro. Anche per il nuovo Papa, già pieno di esperienza e navigato in politica, e per il giovane re il modello ideale era quello della «concordia» tra le due massime autorità della cristianità. «Il sole e la luna dell’universo cristiano». Non è con lui, bensì con il «sistema episcopale del regno» che entrò in contrasto il Papa. E il «sistema episcopale del regno» era il nucleo della forza del re, sia in Germania che in Francia. Di qui, conflitti che diventano progressivamente più acuti e il re non può chiamarsene fuori. Passo dopo passo, si arriva alle scomuniche, alle deposizioni del Papa e del re, all’anti re Rodolfo di Svevia e all’antipapa Clemente III. Siamo alla delegittimazione reciproca: il re non è (più) re, il Papa non è (più) Papa. Sarà in conseguenza di questo, scrive Cantarella, che Gregorio invertì la simbologia cosmologica e fece del Papa il sole. Un’«altra rivoluzione da cui il papato non tornò più indietro».
Non furono le reciproche condanne che fecero deflagrare lo scontro e finirono per condizionare «i comportamenti del re che non poteva fare a meno dell’appoggio dei vescovi». Anzi, osserva lo storico, della condanna che scatenò la «disputa sulle investiture» noi non abbiamo nemmeno il documento. Sappiamo che la disputa si chiuse solo nel 1122 con un compromesso che «facendo uso di veri e propri giochi di parole», riusciva a salvare tanto il Papa quanto l’imperatore. Ma l’assenza di un documento è strana dal momento che sappiamo che Gregorio VII curò personalmente la pubblicazione annuale dei suoi atti, decidendo quali dovevano essere salvati nonché resi pubblici, quali no. E in quale ordine quelli salvati dovessero figurare, almeno fino al 1083. Oltretutto, «di preciso non si sapeva nemmeno cosa fosse un’investitura».
A far scoppiare il conflitto tra Gregorio ed Enrico fu l’insistenza del Papa a chiedere che il re facesse penitenza per aver avuto contatti con ecclesiastici scomunicati. Sarebbe stato sufficiente che il re avesse preso nette distanze da quegli ecclesiastici e dai consiglieri annoverabili tra i suggeritori di quei contatti. Solo che era proprio a quei consiglieri che Enrico IV doveva l’importante vittoria contro i Sassoni. Non poteva dissociarsene. Fu in questo contesto che si arrivò a Canossa «il famoso episodio di cui non si ricorda mai che si trattò di un negoziato intenso». Negoziato che trovò un punto di compromesso in una formulazione ambigua che lasciava le mani libere sia al re che al Papa. Tant’è che non generò una pace, anzi il conflitto riprese subito dopo. L’arcivescovo di Magonza, anche (se non soprattutto) per ridimensionare la portata dell’accordo di Canossa, incoronò Rodolfo di Svevia. E il re fu costretto a riprendere la contesa con il Pontefice. Ne vennero fuori una seconda scomunica e l’elezione di un antipapa (Clemente III).
Ma nel frattempo era iniziata la «rivoluzione» di Gregorio VII. L’invenzione dell’ortodossia: «non sia da ritenere cattolico chi non è d’accordo con la Chiesa di Roma»; «chi non senta in concordanza con i decreti della sede apostolica» dev’essere considerato «eretico». La Chiesa è Roma. Chi non si uniforma sarà combattuto. E quelli che si alleeranno con coloro che non si sono uniformati, verranno anch’essi debellati. Con vigore. A ciò va aggiunta l’imposizione del celibato ecclesiastico che da allora obbligò i chierici secolari allo statuto di castità previsto per i monaci. Imposizione che fu subito aspramente contestata non soltanto perché giudicata irrealistica, ma soprattutto perché si basava «su un’interpretazione innovativa delle Scritture dei Padri». Quelle proposizioni, osserva acutamente Cantarella, non si trovano in una raccolta canonica o in qualche lettera, scritti destinati a pochi. Bensì in due «repertori di predicazione» di modo che fossero annunciate ai quattro venti e tutti potessero ascoltarle. Ogni essere umano avrebbero saputo che cosa significava «stare con Roma» e che cosa comportava stare «contro Roma».
Tutto sommato, aveva scritto Cantarella nella monografia su Gregorio VII, non era neanche un’idea così nuova. Era implicita da tempo. Perlomeno nella «prassi» della Sede Apostolica. Papa Gregorio VII si limitò ad esplicitarla, «anche se in forme clamorose». La «rivoluzione papale» in realtà non era prevista. Si impose da sé nella progressiva ricerca di una maggiore efficienza ed efficacia del governo della Chiesa. Di più: dei necessari controlli di quel governo e dei «sistemi» di governo. Si trattava di dare effettualità alle riforme maturate nei decenni precedenti, nel corso del secolo successivo all’anno Mille. «Le vicende politiche, gli imprevisti, le vere e proprie catastrofi della quotidianità», a detta dello storico, «fecero il resto».
Cosa è allora che rese diverso il pontificato di quel Papa? Il fatto che Gregorio VII si rivelò un genio della comunicazione. Nel senso che intuì la portata dell’arte di diffondere la notizia e se ne impossessò. La sua rivoluzione «più ancora che con la messa a punto di strumenti normativi e pratici di governo» consiste nel riuscire a far percepire Roma (cioè, il Papa) come «metro di tutto». Dopodiché occorreranno un secolo o due per ottenere la piena realizzazione del progetto gregoriano.
I Papi successivi, scriveva Cantarella in «Gregorio VII», fecero proprie le sue acquisizioni «senza proclami e senza schiamazzi». Soprattutto ebbero «la strumentazione non soltanto teorica (resa sempre più acuminata dalla discussione dialettica) ma pratica, via via aggiustata e messa a punto proprio negli anni incandescenti di Gregorio». Alla morte di Ildebrando di Soana la lotta per le investiture era incontrollabile: durerà per altri trentasette anni e quattro mesi. A parte ogni altra considerazione, fu necessario anche «forgiare gli strumenti teorici» per avviare a conclusione quella lotta. Ma i principi della rivoluzione gregoriana sopravviveranno a quella contesa e resteranno definiti una volta per tutte nell’intero secondo millennio. Ancora oggi, all’inizio del terzo.