la Repubblica, 27 giugno 2023
L’ultima udienza di Mussolini al cospetto del re. Cronaca della fine del fascismo (2)
Senza saperlo Ercole Boratto, l’autista del Duce, arrivò puntuale all’appuntamento con la storia alle cinque del pomeriggio di quel 25 luglio 1943, quando attraversò il cancello della Casa del Re spalancato sulla Salaria, guidando il destino di Benito Mussolini all’ultima curva, dopo ventun anni di dittatura.
Schiacciato dalla sua angoscia, il Paese cercava una via d’uscita ignorando che era qui, appena oltre il muro di cinta della residenza reale affondata nel parco. Gli incontri tra il Capo del governo e il sovrano a Villa Savoia erano frequenti. Nei due giorni alla settimana stabiliti per la firma dei decreti, il lunedì e il giovedì mattina, la regola fissava l’appuntamento al Quirinale dove il Duce, dopo il primo incontro in camicia nera, aveva imparato a presentarsi in abito da cerimonia, ghette e bombetta. Ma Vittorio Emanuele III non amava vivere nel gigantismo dei 110 mila metri quadrati del palazzo papale, sorvegliato dai ritratti e dai busti dei suoi antenati. Preferiva la quiete di Villa Savoia, riacquistata nel 1904 come residenza della famiglia, e spesso riceveva qui i suoi Primi Ministri scendendo dallo scalone scortato dai trofei di caccia appesi al muro, per guidare gli ospiti nel piccolo ufficio con la scrivania sovrana davanti alla finestra: che oggi è socchiusa per il caldo, aspettando Mussolini.
Quando il Duce scende dall’automobile, seguito dal prefetto Nicola De Cesare, suo segretario particolare, il Re è già sullo spiazzo d’ingresso ad attenderlo, nella divisa di Primo Maresciallo dell’Impero. Boratto, l’autista, li vede stringersi la mano e sparire oltre la porta. A quel punto riapre l’auto, prende un giornale e cerca un posto per sedersi all’ombra. Ma un poliziotto lo chiama: «Maresciallo, vi cercano al telefono. Vi accompagno in portineria».
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Pochi passi, Boratto entra nella stanza e all’improvviso due carabinieri gli afferrano le braccia, lo bloccano su una sedia e gli urlano di consegnare subito la pistola. Non capisce. «Il tuo servizio con il Duce è finito, il nuovo Capo del governo è Badoglio, ho l’ordine di trattenerti qui. Cerca di stare calmo e non ti verrà fatto alcun male». Ore e ore senza sapere cosa sta succedendo, sentendo soltanto voci, scalpiccìo, qualche corsa, ordini e richiami. Dopo aver accompagnato dovunque per 21 anni l’onnipotenza di Mussolini trasformata in dittatura, nell’ora della fine l’autista del Duce ignorerà tutto e non vedrà nulla, se non il muro bianco di fronte a sé e le cime dei pini, degli aceri e dei tigli nella finestra in alto. Oltre quel muro, sotto quegli alberi immobili, tutto stava cambiando.
Eppure la giornata era incominciata come sempre con l’ansia del bollettino di guerra, il numero 1155, che cercava di nascondere la verità tra gli aggettivi: «L’aumentata pressione di forti masse corazzate nemiche ha reso necessario in Sicilia un nuovo schieramento delle truppe dell’Asse e il conseguente sgombero della città di Palermo. Su tutto il fronte unità italiane e germaniche sono impegnate in aspra lotta».
Gli italiani avevano imparato a decifrare quelle formule mimetiche: “sgombero” vuol dire che la città è perduta, “nuovo schieramento” nasconde la ritirata, “aumentata pressione” significa attacco o sfondamento. Ma non si possono nascondere le bombe, soprattutto quando colpiscono il centro delle città come ieri a Bologna, dove le esplosioni hanno demolito uno dei torrioni del municipio a palazzo d’Accursio, hanno centrato la casa natale di Guglielmo Marconi e hanno squarciato la basilica gotica di San Francesco, mentre in piazza San Domenico i bombardieri hanno sventrato una tomba, portando alla luce dopo 600 anni le ossa di Rolandino de’ Passeggeri, maestro di arte notarile, quasi dovesse certificare per la storia il cambio d’epoca. All’ora di pranzo si possono ascoltare alla radio le musiche d’orchestra dirette dal maestro Angelini, con Soli nella notte di Alberto Rabagliati, Ma l’amore no di Alida Valli, Il valzer di ogni bambina di Luciano Tajoli. Ma dopo la Canzone dei volontari, alle 14.45 va in onda la lettura degli elenchi dei prigionieri di guerra, e le famiglie la aspettano.
Un dossier di intercettazioni nell’archivio della segreteria del Duce
Un dossier di intercettazioni nell’archivio della segreteria del Duce
Nessuno sa che solo poche ore prima il Gran Consiglio del fascismo, organo supremo del regime, ha sfiduciato Mussolini. E tutti ignorano che nel tardo pomeriggio il Duce sta sobbalzando sull’ambulanza militare con i vetri oscurati che da Villa Savoia lo porta in una caserma dei carabinieri a Trastevere. Il suo mondo si è capovolto in poche ore, sta vivendo l’impensabile. Dunque è infine avvenuto. È così che si conclude tutto, gli suggerisce l’evidenza di quello spazio chiuso.
Si era chiesto spesso come sarebbe stato l’epilogo della sua avventura titanica, ed eccolo a sorpresa prendere la forma di una caserma, che ha ancora appeso al muro (con quello del Re) il suo ritratto, fuori luogo come una beffa, con la realtà che corre più in fretta della storia. Ormai ha capito: prima la rivolta del partito che ha aperto la diga, annullando l’ordine e la sicurezza. E subito dopo un colpo del Re e dei militari capace di mettere fuori gioco il padrone d’Italia, senza che le camicie nere si ribellino insorgendo per difenderlo. Dove sono finiti i quattro milioni di iscritti al Partito Nazionale Fascista? E Roma, la capitale che lui ha trasportato dal mito all’Impero, come può sonnecchiare tranquilla prima di cena, senza accorgersi che c’è nell’aria calda di luglio una corrente incendiaria che aspetta solo la scintilla per illuminare uno spettacolo fuori copione?
In realtà nessuno, nemmeno lui, può immaginare che l’evento straordinario si sta compiendo in un Paese ignaro, sovrastato dai disastri ordinari del terzo anno di guerra con i soldati italiani costretti a ripiegare. In un ultimo sussulto i comandi militari dell’Asse annunciano che sul fronte orientale «i bolscevichi hanno perduto ieri 117 carrarmati», ma intanto il ministero della Guerra ha disposto il richiamo in servizio alla Patria di ufficiali, sottufficiali e truppa di tutte le armi, delle classi dal 1907 al 1922. È la conferma di un’emergenza estrema, che spinge a cercare di salvarsi da soli, come si può. Nella capitale manca l’acqua, due bambini risultano dispersi a Porta Labicana e a San Lorenzo, un altro (biondo e spaventato) è stato ritrovato sotto l’arco di Santa Bibiana proprio dopo le bombe, sembra avere due anni e mezzo, aspetta che qualcuno si faccia vivo al tendone dei volontari dove ha dormito stanotte. A Torino, Vercelli, Mondovì finiscono in galera gli accaparratori che imboscano tre ceste di polli, 63 chili di carne e duemila uova, a Pioltello è stato appena fermato un contadino che trasportava sulla bicicletta un vitello da latte, a Milano sta per scattare il coprifuoco dalle 9 e mezza di sera fino alle 4.30 del mattino, con le pattuglie armate che gridano il loro «Chi va là» nel buio. E intanto bisogna prenotarsi se si vuole entrare in via Boito 7, dove abiti, soprabiti e paletot vengono rivoltati nel laboratorio specializzato e consegnati come nuovi, senza punti: telefono 12-305.
Si prova a sopravvivere o addirittura a sperare, nonostante tutto. Nella sola capitale nel mese di giugno sono nati 2921 bambini e si sono sposate 1006 coppie: oltre all’amore affiora qua e là anche l’interesse, visto che con la guerra è partita la caccia alle vedove, ambite da «operaio 41 anni serio, affettuoso, indipendente», ma anche da «agricoltore azienda propria, 37 anni, sentimenti elevati, ottimo carattere, religioso», e da «vedovo 45 anni senza prole, con istruzione e posizione»: che però precisa la sua preferenza per una vedova «morale, preferibilmente sola, possidente». Stasera si può persino applaudire Aldo Fabrizi al Tuscolo in Avanti, c’è posto, o Macario all’Acquario (sala refrigerata) nel Fanciullo del West, Rossano Brazzi all’Ambasciatori nel Treno crociato, Valentina Cortese all’Augustus in Quarta pagina, Rabagliati al Clodio in Lascia cantare il cuore; mentre il cinema Palazzo garantisce la protezione antiaerea, quando risuonano le sirene.
L’impronta della guerra spunta dappertutto coi lutti, la distruzione, la fame. A Roma i volontari sgombrano le macerie dei bombardamenti, a Torino è vietato aprire il rubinetto del gas per i guasti alle condutture dopo le esplosioni, a Milano da oggi se si consegna il buono numero 54 della carta annonaria si possono ritirare due chili di patate. Dovunque, intanto, l’aglio bianco è salito a 4 lire e 35 al chilo, quello secco a 7,90, i funghi freschi sono schizzati a 29,25 lire, il cioccolato autarchico in tavolette tocca 7 lire e 85 centesimi, i sedani scendono a 3,40, e le pesche sono ferme da una settimana a quota 4,70 garantite di prima qualità, con la circonferenza tra 16 e 21 centimetri. La paura delle bombe, la corsa allo sfollamento, spingono a vendere tutto, liberandosi di qualsiasi cosa non sia trasportabile: un fucile calibro 12 con incisioni di primissimo ordine; un fonotavolino; un’enciclopedia Treccani nuova; una batteria di conigli giganti argentati Fiandra; una ghiacciaia laccata; un paio di scarpe misura 41, poco usate; un pianoforte Mignon Gebruder Stingl Wien; una cucina economica a liquigas con due bombole; una dinamo Bosen per grossi automezzi; otto cavi di teleferica da 18-23 millimetri; dodici fusti per birra da 200 litri; una piallatrice da legno a cinque alberi lunga cinque metri peso cento quintali; due damigiane di tamarindo garantito per bar, caffè, pasticcerie e farmacie, superconcentrato.
Un vortice. L’uomo che l’ha generato siede adesso su una panca contro il muro, solo. Ha sempre creduto nel destino, sentendosi prescelto, come gli ripeteva quand’era bambino Giovanna dai tre mariti, la vecchia fattucchiera vicina di casa. Da mesi pensa che la sua buona ora sia passata. Il fondo cupo del fascismo, la sua religione di morte sembra circondarlo fisicamente, incalzandolo come una profezia di sventura. E quella stanzetta dove tutta la sua autorità imperiale non riesce più a entrare, è la prova materiale che la ruota ha fatto un giro, travolgendolo. Non c’è più niente da fare. Pronto a esaltarsi, in passato, ora si è già arreso alla sventura. Troppi segni si sono accumulati nei mesi, e adesso finalmente il suo sentimento del tragico li avverte, come se la luce fredda della caserma illuminasse l’evidenza.
Quei rancori e quella voglia di vendette personali che crescono dentro il fascismo, gerarchi delusi e divisi, immemori del debito che hanno con lui: come il conte Dino Grandi di Mordano, il tessitore in capo della trama di ammutinamento, che ancora nel mese di marzo era andato a palazzo Venezia a supplicarlo di parlare col Re del suo desiderio di ricevere il Collare dell’Annunziata, perché voleva diventare cugino di Vittorio Emanuele III. O come il Maresciallo Pietro Badoglio, che proprio oggi sta prendendo il suo posto ma che nel novembre del 1925, quando Mussolini sfuggì a un attentato, gli trasmise per lettera «il palpito della nazione vibrante di commozione e di esultanza a voi serratasi affettuosamente d’intorno»: per poi chiedere anche lui, nel settembre di tre anni dopo, l’intercessione per ottenere dal sovrano il Marchesato del Sabotino. Poi, ancora, le mezze frasi critiche e sprezzanti che correvano sul filo dei telefoni e venivano trascritte dai 400 intercettatori-stenografi del SSR, il Servizio Speciale Riservato della polizia: che poi battevano a macchina il testo delle conversazioni più delicate, e le inviavano per via gerarchica al Duce, il primo a leggere il rapporto timbrato quando al mattino entrava in ufficio. Così Mussolini viene a sapere in tempo reale che Italo Balbo è furioso per la nomina a governatore della Tripolitania, convinto che sia stata decisa per allontanarlo da Roma: «Per me è una fregatura bella e buona, lui lo ha fatto con il preciso intento di levarmi dai piedi – dice Balbo al telefono con il generale Emilio De Bono alle ore 10,45 del 25 novembre 1933 —. Lo conosco bene. Egli teme la mia popolarità, ma ora mi ha proprio rotto gli stivali». Poi, parlando con un’amica, aggiunge una minaccia subito registrata: «Quel farabutto ha voluto indorare la pillola… ma io sono capace di andare a rompergli il grugno».
Negli ultimi anni le critiche intercettate aumentano di numero e di intensità, nel vertice del fascismo ognuno sembra pensare solo per sé. Grandi in fondo ai suoi calcoli coltiva l’idea che se si riesce a eliminare Mussolini proprio lui potrebbe prendere il suo posto, lo stesso De Bono si sente in corsa come quadrumviro anziano, Ciano deve addirittura giustificarsi col Duce per le voci che lo danno in gara per la successione, e girano persino in Albania, dove i servizi le raccolgono nel loro mattinale da Tirana il 29 dicembre 1942. La sensazione diffusa è che il regime si stia disfacendo, non per opposizione, ma per decomposizione. Tutto appare fuori controllo, il sistema ormai non può reggere, la velocità degli eventi lo scuote, lo sopravanza e lo mette a nudo, rivelandone il volto reale sotto la maschera titanica e magniloquente.
Questo equilibrio instabile e sfibrato è venuto a rompersi proprio qui, in una caserma dei reali carabinieri dove stasera il Duce ha appena rifiutato la cena dicendo di non aver fame, per nascondere l’imbarazzo di svelare per la prima volta che è costretto a mangiare riso e latte, quasi fosse una prova di debolezza, una dieta della resa. Da cinque mesi soffre di dolori fortissimi allo stomaco, quando gli attacchi lo assalgono a casa serra con le braccia le ginocchia contro il petto spingendole verso il mento, convinto che quella posizione sul bordo del divano sia l’unico rimedio, ma la settimana scorsa la moglie Rachele lo ha visto sopraffatto, mentre si rotolava sul pavimento. Le analisi danno la colpa a una vecchia ulcera che si era fatta viva nel 1925, ma ormai sempre più nelle riunioni di partito e di governo tutti vedono che il Duce si comprime lo stomaco con la mano destra, o si alza di colpo e cammina a scatti come se volesse sfuggire a qualcosa che lo incalza, a novembre del 1942 resta addirittura a casa dieci giorni perché il male è troppo forte, è deperito e gli occhi sembrano ancora più grandi, spiritati. C’è paura in famiglia, ma i medici si inseguono con rimedi diversi: il professor Bastianelli elimina dai pasti tutte le sostanze grasse, il professor Castellani, esperto di malattie tropicali, esclude che si tratti di ameba, il professor Frugoni prescrive una cura di iniezioni quotidiane: ma quando stamattina è arrivato puntuale a Villa Torlonia il dottor Pozzi per la solita puntura, Il Duce lo ha congedato: «Oggi no, oggi il mio sangue è troppo in ebollizione».
Il Duce e il Führer insieme a Venezia nel 1934
Il Duce e il Führer insieme a Venezia nel 1934
Lui sa benissimo che la causa di quei dolori che lo assaltano a tradimento è il mal di guerra, l’angoscia per i rovesci militari su tutti i fronti, l’ombra della sconfitta che in quel 1943 incombe sull’Asse invincibile, sull’Italia, e a questo punto su di lui. Scegliendo la guerra a fianco della Germania, il Duce pensava di poter rivendicare Nizza, la Corsica e la Tunisia. In quel momento era convinto di poter raggiungere i suoi obiettivi facilmente, partecipando alla vittoria di Hitler, anche se il giorno della dichiarazione di guerra il suo istinto percepisce l’incognita nascosta nell’azzardo. «Qui entrano in gioco le sorti dell’Italia – confida la sera – e un solo gesto, una sola parola, potrà significare la gloria, l’avvenire, ma anche la fine più ignominiosa». Aveva avuto troppa fretta, o troppa ingenuità, quando la controffensiva di Rommel era arrivata con le forze italo-tedesche davanti a El Alamein e lui aveva immediatamente spedito in Cirenaica il suo cavallo arabo e la spada dell’Islam da sguainare al momento in cui avrebbe fatto il suo ingresso trionfale ad Alessandria d’Egitto.
Niente di tutto questo. «Mi manca la materia prima – si giustifica —. Evidentemente ci sono solo due cose che contano per gli italiani e hanno eterno valore, pane e testicoli. Il resto, ideali, pensiero, sacrificio, niente. Anche Michelangelo aveva bisogno del marmo per fare le sue statue, se avesse avuto soltanto dell’argilla sarebbe stato un ceramista. D’altra parte un popolo che è stato per sedici anni incudine non può, in pochi anni, diventare martello». Leggendo i tragici bollettini dai fronti dà la colpa ai generali «incapaci di fare la guerra col furore del fanatico, e non con l’indifferenza del professionista». Alle 5.45 di mattina dell’8 novembre 1942 il Duce viene svegliato dalla notizia dello sbarco americano in Algeria e in Marocco, il 25 quaranta carrarmati statunitensi sono davanti alle porte di Tripoli, dove i rifornimenti per le truppe italiane faticano ormai ad entrare. In Russia lo sfondamento sovietico travolge le linee, tre quarti della nostra Armata sono perduti. Si comincia a pensare a difendere il territorio metropolitano da una possibile invasione alleata. E insieme, si comincia a ragionare sulla necessità di una svolta. I generali Ambrosio e Vercellino vanno da Galeazzo Ciano, ministro degli Esteri e genero di Mussolini, per dirgli che la guerra è perduta, per l’Italia sono in vista solo distruzioni e lutti: fin dove vogliamo arrivare?
Il conte Galeazzo Ciano
Il conte Galeazzo Ciano
Si parla apertamente della necessità di convincere Hitler a un’intesa con Stalin, per disimpegnare truppe e forze aeree dal fronte orientale e concentrarle in Occidente, dove si sta spostando il cuore del conflitto. C’è la convinzione che se avverrà lo sbarco angloamericano, nel Mediterraneo mancheranno le forze di contrasto: «A volte – ammette Ciano – ho l’impressione che l’Asse sia come un uomo che deve coprirsi con una coperta troppo piccola, e ha freddo alla testa se riscalda i piedi, mentre i piedi si gelano se vuole tirarla più su». Ma il Duce crede di avere ancora tempo. Non riesce a spiegare a Hitler i timori e le aspettative italiane, è depresso per le notizie dalla Libia e si rende perfettamente conto che la perdita di Tripoli è un colpo durissimo al morale della nazione. Nel discorso al balcone di piazza Venezia, il 5 maggio del ’43, assicura che l’impresa africana non è finita: «Torneremo. Per il momento gli imperativi categorici sono questi: onore a chi combatte, disprezzo per chi si imbosca, e piombo per i traditori di qualunque rango e razza».
Oltre gli slogan, Mussolini sembra non avere più le risorse per recuperare la fiducia perduta del Paese e si smarrisce in cento preoccupazioni insignificanti, pur di evitare il cuore della sua tragedia che incombe. Con una telefonata sospettosa chiede a suo genero se è vero che ha inaugurato politicamente il 1943 partecipando a una colazione segreta a casa di Farinacci, poi trova il tempo per scegliere una spada d’oro cesellata da regalare a Göring per i suoi cinquant’anni, quindi in Consiglio dei ministri attacca «i bracaioli, cioè i soliti individui che stanno con le brache in mano non appena l’orizzonte si oscura». Finché il 9 e il 10 luglio le truppe alleate sbarcano in Sicilia e il conflitto entra in casa agli italiani. È la sconfessione dell’illusione, il rovesciamento del mito. Soltanto pochi giorni prima, il 24 giugno, il Duce aveva arringato il direttorio del partito spiegando che fermare l’invasione «è questione di vita o di morte. Bisogna che non appena il nemico tenterà di sbarcare, sia congelato su quella linea che i marinai chiamano del “bagnasciuga”, dove l’acqua finisce e comincia la terra. Se per avventura dovessero penetrare, bisogna che le forze di riserva si precipitino sugli sbarcati, annientandoli fino all’ultimo uomo. Di modo che si possa dire che essi hanno occupato un lembo della nostra patria, ma rimanendo per sempre in una posizione orizzontale, non verticale».
Qualcosa non convince lo stesso Mussolini mentre parla: le immagini evocate, il tono, la forza della realtà che contrasta con le parole e le demistifica. Non è contento del discorso, anzi per la prima volta è a disagio. Può confidarlo soltanto a una persona che conosce dal 1932, dopo un incontro casuale sulla strada per Ostia mentre guidava la sua rossa Alfa Romeo 1750 Gran Turismo Zagato: l’ammirazione entusiasta per il Duce di Claretta Petacci, più giovane di lui di 29 anni, si trasformerà subito in amore per “Ben”, una passione che li unirà fino alla morte.
Claretta Petacci
Claretta Petacci
Lui la riceve a Palazzo Venezia, le scrive lettere infuocate, le telefona più volte al giorno, la incontra nelle stanze al pianterreno della villa di famiglia, al 355 di via della Camilluccia. La chiama anche dopo il discorso sullo sbarco, e nella sala di ascolto del SSR, al desk numero 22, si accende la luce verde, in corrispondenza con la luce rossa del jack 11. Contatto: è la conversazione tra il Duce e Claretta delle ore 0.35.
«Buonanotte».
«Come ti senti, Ben mio?».
«Come mi devo sentire? Se vuoi alludere ai miei disturbi, come al solito, o peggio. Riguardo al resto, poi, è meglio non parlarne».
«Hai superato ben altre crisi, vedrai che anche questa volta…».
«Il fatto è che mai mi sono trovato in condizioni simili, sia fisiche che morali».
«Fallo per il nostro amore, Ben, vedrai che si tratterà di sciocchezze momentanee».
«Non sono affatto sciocchezze, e poi, non vedi la situazione? Mi sento la testa vuota, mi sfuggono le idee, le parole… Non ti sei accorta che anche nel mio ultimo discorso ho commesso delle gaffe, ho detto frasi fuori luogo».
«Quello del bagnasciuga?».
«Ecco, anche tu, come tutti gli altri, a ironizzare! Sono diventato la favola, lo zimbello di tutti con quella maledetta parola. Passerò alla storia non come Il Duce del fascismo e il fondatore dell’Impero, ma più semplicemente come il “bagnasciuga”. Non mi faccio illusioni: quella frase viene raccontata sotto forma di barzelletta proprio da quelle persone che venivano ad applaudirmi a piazza Venezia».
Galeazzo Ciano si accorge che in tutti i colloqui il Duce non parla più di vittoria. La parola è sostituita da un’altra: combattimento.
Anche l’abito blu scuro del Duce, borghese, sembra disarmarlo nella caserma che lo custodisce, spogliandolo di gradi militari, medaglie, mostrine, greche e simboli del comando: persino della camicia nera con cui 21 anni prima è andato all’assalto del potere, e che ha indossato il giorno della Marcia su Roma, guidando l’insurrezione. La violenza fisica gli aveva aperto un varco nel sistema, portandolo alla guida del Paese nel 1922, ai sicari che nel giugno ’24 uccidono a coltellate nel bosco di Riano Giacomo Matteotti che si era alzato in Parlamento per denunciare la deriva fascista senza paura. Conquistato il governo, Mussolini continuò con gli stessi metodi di sopraffazione, in una violenza divenuta di Stato, per cancellare l’opposizione. Fino all’infamia, il 29 dicembre 1925, dell’assalto squadrista alle carrozze funebri che a Milano accompagnavano al cimitero monumentale la bara di Anna Kuliscioff, la “dottora” dei poveri compagna di Filippo Turati, strappando le bandiere, i fiori e i nastri rossi dei socialisti inseguiti e bastonati, con la polizia che assisteva ai bordi della vergogna.
Sono le ultime grida di «Viva il socialismo», nella città in cui era nato. Il regime genera una violenza nuova, istituzionale, che insedia la dittatura facendo piazza pulita di ogni libertà politica, di manifestazione, di stampa. Prima la nascita della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, che non giura fedeltà al Re, poi la creazione del Gran Consiglio del fascismo che assorbe poteri dal Parlamento e dalla Corona. Quindi la nuova legge elettorale che garantisce i due terzi della Camera al partito che arriva primo nelle urne, le norme che controllano i giornali e sopprimono tutti i partiti salvo il Pnf, la creazione del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, cioè per la repressione di ogni opposizione. La democrazia parlamentare finiva così, e con lei si disperdeva anche la tradizione della civiltà politica italiana, nei limiti dello Statuto, ormai «vuoto come il Santo Sepolcro», nell’epitaffio del gerarca Italo Balbo. Lo dimostra l’abominio delle leggi razziali acclamate nel 1938 alla Camera, che toglievano i diritti civili e politici «agli appartenenti alla razza ebraica», aprendo le porte ai treni della deportazione, nei giorni italiani del disonore.
Sono soppressi tutti i giornali antifascisti, vengono sciolte tutte le associazioni d’opposizione, si deportano gli avversari del regime. Ma le squadre vanno oltre, aprono la caccia agli antifascisti, picchiati sotto gli occhi delle mogli e dei figli nelle case devastate. L’unico modo per continuare la lotta diventa l’esilio, anche perché le riunioni clandestine in Italia sono diventate impossibili, Parri, Rossi, Nenni, Rosselli, Bauer sono guardati a vista dagli agenti della polizia politica.
La sera del 13 novembre 1926 Nenni passa in Svizzera, per poi raggiungere la Francia. La Camera ha appena votato una mozione per cacciare dal Parlamento tutta l’opposizione, e il primo atto è l’arresto davanti a Montecitorio dei deputati comunisti. Antonio Gramsci viene prelevato a casa, e portato a Regina Coeli.
Benito Mussolini con Ettore Muti e Pietro Badoglio in uno scatto del 1939 in alta uniforme
Benito Mussolini con Ettore Muti e Pietro Badoglio in uno scatto del 1939 in alta uniforme
In pochissimi anni, in pochi gesti, con l’umiliazione di molti e la connivenza di troppi, il Paese si è trasformato in un regime chiuso in se stesso, continuamente preoccupato di blindarsi per tutelarsi e di aggredire per proteggersi, temendo ad ogni passo una possibile imboscata, la rivelazione improvvisa di una vulnerabilità nascosta, il seme di un germoglio di ribellione dietro le acclamazioni oceaniche a Mussolini. Che stasera ne sente l’eco lontano e inutile, confuso col mal di stomaco. A cosa è servito tutto quell’apparato dittatoriale, se adesso il Duce è qui isolato e sorvegliato, e deve chiedere per favore a un agente anche per avere un po’ di luce nella stanza? Alle sette di sera di questo 25 luglio inconcepibile lo hanno scortato nella caserma della scuola allievi carabinieri, aprendo per lui la porta al secondo piano dell’ufficio del colonnello Tabellini, il comandante. Sembra un passaggio momentaneo, di riguardo, ma un ufficiale veglierà nella stanza vicina, ha l’ordine di non muoversi e di non rispondere nemmeno al telefono che squilla a vuoto nella notte, mentre una luce di sorveglianza rimarrà sempre accesa. Circondato da un silenzio che non conosceva, il Duce spegne invece il suo lume alle 11 di sera, come se avesse infine premura di chiudere la giornata, rifugiandosi nel buio.
Nella stessa oscurità di una città stordita, a quell’ora anche l’autista di Mussolini esce a piedi dal 25 luglio e dalla centrale di polizia. Il questore ha voluto interrogarlo di persona, gli ha chiesto se ha documenti riservati, se sente in coscienza di dover rivelare qualche informazione delicata. Due ore faccia a faccia poi, come se fosse improvvisamente stanco, lo lascia andare. Ma prima, fa un gesto verso il distintivo fascista all’occhiello della giacca dell’autista: «La cimice, Boratto. Vi consiglio di togliervela subito». Esce a piedi in una città diversa da quella che vedeva inquadrata nel parabrezza del regime: svanita nello spazio tra un giorno e la notte.
(I. Segue)