Corriere della Sera, 27 giugno 2023
Intervista a Ferruccio Ferragamo
Un signore della moda diventa viticoltore e apicoltore. Ferruccio Ferragamo, 77 anni, figlio del calzolaio dell’Irpinia che inventò le scarpe a misura di diva, è stato fino all’anno scorso il capo della Salvatore Ferragamo spa, un gruppo da 1,2 miliardi di ricavi nel 2022. Ora è presidente della holding finanziaria che possiede la maggioranza dell’azienda. In questa sua seconda vita, si dedica alla Tenuta del Borro, in provincia di Arezzo, appartenuta prima ai Medici poi ad Amedeo d’Aosta.
Com’era Ferruccio bambino?
«Mio padre Salvatore è partito dal nulla. Noi figli siamo nati tutti nella stessa camera a Fiesole, al Palagio, ora di mia proprietà. Andavo malissimo a scuola. Rivendevo i libri, come nuovi, non li aprivo quasi mai. Papà diceva che quattro mesi di vacanze scolastiche erano troppi. Ero in quinta elementare. Mi portò a palazzo Feroni, nel salone c’era il magazzino spedizioni. Mi disse di inchiodare le casse per spedire le scarpe. Ne produceva 80 paia al giorno».
Tutte uguali?
«Tutte diverse. Faceva così: guardava negli occhi la cliente mentre teneva nelle mani i piedi. Si era iscritto ad Anatomia, per studiare la struttura del piede. Era un genio creativo e psicologo. Lo osservavo e vedevo nascere i modelli, avevo 10 anni e facevo perdere tempo a tutti».
Cosa ricorda di quei giorni?
«Ho un ricordo indelebile, una ferita vicina all’occhio sinistro. Si vede ancora, ho voluto fare lo spavaldo nella gara a infilare i chiodi con una sola martellata. Uno mi rimbalzò sul viso».
Come diventò famoso suo padre?
«Aprendo in California, a Santa Barbara, un negozio di 4 metri per 4. Venne John Wayne a farsi gli stivali. Poi arrivarono tutte le dive di Hollywood. Quando papà si trasferì in Italia, le attrici venivano a farsi costruire i modelli a Firenze. Abbiamo 14 mila modelli di quel periodo, compresi quelli per Marilyn Monroe. Alcuni sono assemblati persino con fili di reti da pesca, perché non si trovava pellame durante la seconda guerra mondiale».
Nel 1960 suo padre morì. Toccava alla generazione successiva.
«Papà se lo sentiva, ripeteva che aveva bisogno di altri anni per fare tutto quello che aveva in testa. Alla sua morte, nessuno tra noi sei fratelli e sorelle era in età da lavoro. Io avevo 14 anni, Fiamma 17, Giovanna 15, Fulvia 11, Leonardo 7 e Massimo 2. Allora producevamo solo scarpe da donna, il 50% su misura».
Sua madre, Wanda Miletti, come ne uscì?
«Inventò una nuova azienda, oltre le scarpe. Fiamma si dedicò alla borse, Giovanna ai vestiti, Fulvia ai gioielli, alla seta e alle cravatte, Leonardo ai mercati esteri e alle scarpe uomo, settore in cui diventammo presto il numero uno sulla fascia alta. Massimo poi si concentrò sugli Stati Uniti».
Sei figli, immagino le discussioni.
«Mia madre riusciva a farci andare d’accordo».
Lei quando entrò in azienda?
«A 18 anni. Avevo lasciato il liceo scientifico per studiare da ragioniere. Me lo consigliò mio cugino Jerry, che aveva 18 anni più di me, ed è stato fondamentale per far crescere Ferragamo. Uno che sa fare i conti serve sempre, mi disse. È stato così».
Qual è stato il primo incarico?
«Sistemare le soffitte di Palazzo Feroni, piene di scarpe invendute, avanzi dei nostri 12 negozi. Mamma mi promise il 10% dell’incasso. Ingaggiai due operai, che mi fermarono: “Signorino, queste scarpe non le sa fare più nessuno, mettiamo da parte qualche modello”. Grazie a loro abbiamo iniziato a costruire il mostro archivio e il museo».
Cosa la appassionava?
«La logistica. Premiai un ragazzino, di nome Primo, che faceva le commissioni impiegando metà del tempo degli altri. Gli chiesi di gestire il magazzino spedizioni, fece una rivoluzione, diventò il capo dei magazzini di New York e Hong Kong. È di Firenze, dove c’è il controllo qualità della merce. Ora è in pensione, ho assunto la figlia Lucia, un fulmine come lui».
In quel periodo tra le clienti c’erano Greta Garbo e Anita Ekberg. Chi ha conosciuto tra le dive?
«Quando ero ragazzino, gli amici mi prendevano in giro perché raccontavo di Audrey Hepburn, la star di “Vacanze romane”. Poi sono uscite le foto e mi hanno creduto. Marylin Monroe si serviva in Park Avenue, ho incontrato Anna Magnani, Ava Gardner, mi è rimasta impressa la biondissima di Lascia o Raddoppia, Paola Bolognani, una celebrità del quiz».
Come è nata la passione per la vita agricola?
«Il nuovo assetto generava crescite, abbiamo pensato a una diversificazione, anche per il futuro di figli e nipoti, una ventina (ora 27), Abbiamo acquistato Ungaro, ma l’abbiamo rivenduta. Poi un’azienda di tessuti che non andò bene. A Milano, incontrai il banchiere Alberto Milla, che ci disse che erano in vendita tre alberghi. Abbiamo fondato una società per gli alberghi in sei parti uguali. È un ramo di cui si occupa Leonardo. È lui ad aver proposto alla famiglia il Portrait di Milano, il nuovo hotel nell’ex seminario vescovile».
Come ha acquistato il Borro?
«Ci andavo a caccia, era la riserva del duca d’Aosta dal 1904. Conoscevo la Val d’Arno, mia madre aveva una tenuta, Viesca. Ho acquistato la tenuta nel 1993, c’era un borgo che cascava a pezzi. Riunii la famiglia. Ho sei figli, 5 da Amanda, la prima moglie, il sesto dalla ex- seconda moglie, Ilaria. Parlai di una tenuta per l’accoglienza, tutti entusiasti».
Chi se ne occupò?
«Mio figlio Salvatore, è stato lui a darmi la carica. Ha capito che c’era un terreno perfetto per il vino. Nel 1995 abbiamo piantato il vigneto, il primo vino era pronto nel 1999. Il borgo era rinato, ho pensato che era il momento di dare da bere agli ospiti».
Era esperto di vino?
«Bevevo pochissimo, quasi astemio. Ma ho buon naso e buon palato. Non mi sono mai ubriacato, neanche da ragazzo».
Quanti ettari di vigneto avete?
«Ottantacinque, abbiamo acquistato anche Vitereta, un’azienda vicina. Produciamo grandi rossi, prima di tutto Il Borro, l’Alessandro Dal Borro, il Petruna in anfora e il Polissena. Ma anche un rosé Metodo classico e il Lamelle un bianco che amo molto».
Vive in campagna?
«Quando ero presidente della Ferragamo restavo 5 giorni a Firenze e uno al Borro, ora il contrario. Ora ci passo anche le vacanze. Mi spiace per i dipendenti che quando vedono il mio pick up grigio si agitano».
Come avete cambiato il Borro?
«L’abbiamo convertito al biologico. Siamo al terzo bilancio di sostenibilità. Produciamo tre volte l’energia che usiamo. Dalle nostre 400 pecore arrivano i formaggi che serviamo nei ristoranti, sui taglieri dei nostri falegnami».
Chi ha scelto il gregge?
«L’ho acquistato da un allevatore della Val d’Arno. Ho accompagnato il gregge fino al nostro ovile, come i pastori, 15 chilometri a piedi. Pioveva, era buio. Ho fatto costruire un recinto alto due metri anti lupi».
Al Borro c’è il miele Wanda, come sua madre. Perché si chiama così?
«Mia madre ci parlava spesso delle arnie di suo padre, medico in provincia di Avellino. Ci regalava libri sulle api, ma le davamo poca soddisfazione».
Quando ha cambiato idea sulle api?
«Quando abbiamo organizzato una mostra a Palazzo Feroni. Poche ore prima dell’inaugurazione trovammo un favo tra la finestra di mia madre e la vetrina con le scarpe storiche, all’ingresso principale. Siamo riusciti a recuperarlo e abbiamo trasferito al Borro quelle api che ora ci vivono felici. Così è nato Wanda, miele di lavanda, ora abbiamo cento arnie. La mia fidanzata Teresa me ne ha regalato una trasparente».
Va ancora a caccia?
«Poco, cinghiali e fagiani. Al Borro abbiamo 130 cavalli, 60 dei quali sono ospiti paganti, 38 partoriscono quest’anno, i puledri sono una decina. I cavalli in pensione sono sacri come le vacche, tengono i campi puliti. E li concimano».
E adesso cosa vuole fare al Borro?
«Vogliamo tenere aperte le strutture ricettive per 12 mesi l’anno con spa e piscine riscaldate. E stiamo avviando una fondazione: abbiamo 206 dipendenti, molti a chiamata che non riescono ad ottenere mutui per le case. La fondazione farà da garante alla banca per quelli che si vogliono accasare nei 4 comuni dei 1.100 ettari del Borro. La intitoleremo a Primo, il magazziniere che fece carriera partendo dalle piccole commissioni».