La Stampa, 26 giugno 2023
GLi ultras dei figli
Una storia universale è quella dei genitori ultrà di Seregno. Come una ola antisportiva la loro condotta si propaga: da Abbiategrasso a Rovigo, da Roma al resto del mondo, Russia, America, per finire sul fondo dell’oceano. Comincia un pomeriggio di giugno dopo le 18. La toponomastica del luogo allude a comportamenti di misericordiosa cristianità. La via è dedicata a don Carlo Gnocchi, sacerdote, cappellano militare, ma soprattutto educatore. L’angelo dei bimbi, lo definì il titolo di una fiction televisiva. Non ci sono per fortuna telecamere nell’oratorio Sant’Ambrogio dove si gioca una partita tra due squadre di calcio composte da bambini sotto i 9 anni. Una è la locale Polisportiva San Giovanni Paolo II, l’altra la formazione dei Lions di Muggiò. Non ci sono santi e le belve stanno in tribuna. I genitori dei ragazzini tifano come neppure a un derby al Meazza. Una decisione dell’arbitro scatena la contestazione, poi la rissa tra chi la subisce e chi se ne avvantaggia. Volano pugni e schiaffi, perfino una signora ne riceve (e ne dà). In campo si fermano, attoniti. Un dirigente della squadra di casa sale sugli spalti per frenare lo spettacolo, così poco istruttivo. Viene colpito con un calcio, alla schiena, e cade. Non vede l’aggressore, ma riesce a rialzarsi e fotografare la targa dell’auto con cui si allontana. La sera stessa andrà all’ospedale di Desio dove gli verranno diagnosticati lo spappolamento di un rene e lesioni alla milza. Operazione, asportazione dell’organo ormai distrutto, terapia intensiva, denuncia per lesioni aggravate. Rintracciato il colpevole: 47 anni, incensurato.
Nel libro Mio figlio è un fenomeno il giornalista cesenate Fabio Benaglia racconta molte storie simili, riferite da fonti (allenatori e dirigenti) che pretendono l’anonimato «o siamo finiti». Padri e madri che vedono nei ragazzi la fonte di futuro guadagno e l’onore della famiglia, che istituiscono premi partita di 20 euro, che chiedono di togliere il bambino dalla barriera durante le punizioni avversarie, che istigano al fallo durante l’incontro. E per i quali l’arbitro è nel giusto solo se fischia a favore. Un conto sono i genitori tifosi, un altro quelli ultrà, che non guardano neppure la partita, ma solo il proprio ragazzino, verso il quale tutti gli altri commettono sempre fallo. Tutti: direttori di gara, allenatori, insegnanti. È davvero una specie universale.
La trovi a Rovigo dove durante una lezione un ragazzo porta la pistola a pallini, un altro “spara” alla professoressa, un terzo filma e ventuno assistono. Su ventiquattro, uno solo e relativo genitore chiedono di essere perdonati per l’errore commesso. I tre vengono promossi, il voto in condotta è 9.
La trovi a cinquanta chilometri da Seregno, ad Abbiategrasso, dove uno studente tira sei coltellate alla professoressa di storia («lo irritavano le materie umanistiche, voleva fare l’ingegnere»), viene espulso e bocciato, ma i genitori prima non mandano una lettera di scuse, un biglietto di solidarietà alla docente, poi fanno ricorso, «almeno contro la seconda parte del provvedimento». C’è chi ha riconosciuto loro qualche ragione. Quale? Il merito non è mai disgiunto dal comportamento. È un concetto che lo sport dovrebbe aiutare a comprendere. Se il calciatore migliore in campo, autore di due gol da cineteca, poi commette fallo su un avversario entrando a gamba tesa deve essere espulso o la sua bravura gli vale la permanenza in campo? La risposta esatta è: cartellino rosso.
È vero, come ha scritto Antonio Polito sul Corriere, che siamo passati dalla generazione dei doveri (in cui i padri e le madri davano per principio torto ai figli e ragione alle istituzioni) a quella dei diritti in cui si è rovesciato l’onere della prova. Non è però da nostalgici frenare, non si incarna per questo la fattispecie dell’incendiario divenuto pompiere. A ben vedere chi dissente era contro i padri di ieri e contro quelli di oggi, non ha mai smesso di usare la testa. Perché questi coetanei non hanno fatto nessuna rivoluzione copernicana, non sono diventati progressisti o permissivi dopo aver abbracciato un ideale: sono gli indifferenti dei banchi di mezzo, cresciuti senza evolversi. Il loro leader è “Papo”, quello che bacia il cofano della Ferrari appena presa a noleggio e la guida senza cintura, dicendo in video una battuta da film dei Vanzina: «Bianca! Cabriolet! En plein air!». A riprenderlo è il figlio seduto al suo fianco. Tempo dopo si troverà con gli amici a bordo della Lamborghini che investirà, uccidendolo, un bambino di cinque anni. Reazione dei “responsabili": «Tranquilli, daremo un sacco di soldi alla famiglia e sistemeremo tutto».
Non hanno bisogno di pagare i potenti di Russia per evitare il servizio militare ai propri figli mentre mandano quelli altrui a morire nell’"operazione speciale” in Ucraina. E così neppure il presidente degli Stati Uniti per sopire il clamore sollevato dalle malefatte di suo figlio avvocato e imprenditore di sicuro insuccesso.
In famiglie di ogni genere, latitudine, rilievo sociale, si stringe un patto generazionale di mutuo soccorso e protezione che poco ha a che vedere con l’affetto e niente con la legalità. Nell’intreccio fra affetto e interesse si nasconde anche una speranza, non troppo segreta. Quella di ricevere dai discendenti l’assoluzione finale, quali siano stati i peccati: averli schierati, come una barriera atta a respingere la punizione, nel primo banco di una chiesa affollata, mentre un sacerdote pronuncia un’omelia double-face. Difensori postumi, continuatori della tradizione, portatori dell’eredità. Vincolati in nome e per conto corrente.
Alla fine l’immagine che tutto tiene deriva ancora una volta dalla cronaca recente. È quel sottomarino improbabile, sceso nella profondità inaccessibile dell’oceano per vedere da vicino un relitto, finendo per emularlo. A bordo, cinque passeggeri. Tra questi: un padre e un figlio. Per allargare l’esperienza dell’altro, farsi un regalo, compiacersi, andare oltre, insieme. Oltre il confine prestabilito dal buonsenso, e perdersi. —