La Stampa, 26 giugno 2023
40 anni dopo la morte di Bruno Caccia
II 26 giugno 1983 criminali ‘ndranghetisti uccidevano a Torino il Procuratore Bruno Caccia. Al magistrato viene spesso affidato quanto di più prezioso un uomo possiede: libertà, onore, beni. Possono essere in gioco anche la tranquillità e la sicurezza pubblica. Dal magistrato, perciò, si pretendono doti qualificate. Queste doti Caccia le possedeva in misura eccezionale. Egli è stato, per tutti coloro che hanno la giustizia nella mente e nell’animo, il simbolo di ciò che è e deve essere il magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero (accomunati dalla medesima cultura della giurisdizione, almeno fino a quando sarà consentito): scrupoloso nell’osservanza delle regole ma al tempo stesso animato da etica del risultato, vale a dire da impegno uguale e costante in tutti i casi da affrontare.
In uno Stato in cui alcuni personaggi convivono col malaffare, può sorprendere che ci siano funzionari disposti a fare il loro dovere fino a morire per questo Stato. Emerge nel contempo che quelle vittime hanno di fatto compiuto una missione storica: restituire lo Stato alla gente. Perché è grazie a loro che lo Stato riesce a presentarsi agli occhi dei cittadini anche con volti credibili nei quali ci si possa identificare.
L’uccisione di Caccia si inserisce in un lungo elenco di magistrati uccisi, dalla violenza terroristica o mafiosa. Queste morti, lontane nel tempo, sono vicine nel cuore. Purtroppo – vien da dire – non per coloro che anche in questi giorni hanno in mente pseudo riforme che a me sembrano sottese (se non tutte, quanto meno in gran parte) da un pericoloso fil rouge: quello della sfiducia che si cerca di indurre verso i magistrati, della insofferenza o della paura nei loro confronti. Meglio: non di tutti i magistrati, ma di quelli che – come Bruno Caccia – si ispirano all’affermazione del principio di legalità, della legge eguale per tutti.
Caccia è stato un grande magistrato (ho avuto il privilegio di lavorare con lui – per anni – sulle Br : imparando da lui tutto quel che serviva a un magistrato allora ancora giovane). Eppure, a parte alcune celebrazioni più che altro formali (l’intitolazione di una piazzetta periferica e, solo molto tempo dopo, del Palagiustizia), la città di Torino sembrava aver di fatto dimenticato questo suo martire. Tanto che Nicola Tranfaglia dovette scrivere un saggio su di lui intitolato «Il giudice dimenticato». Per un recupero concreto della sua memoria, si sono efficacemente mobilitati – con decine di iniziative – soprattutto i giovani di «Libera», che tra l’altro gestiscono a San Sebastiano Po la cascina confiscata alla famiglia ‘ndranghetista mandante dell’omicidio, ora intitolata proprio a Bruno Caccia e alla moglie Carla. Facendo così di Caccia un prezioso punto di riferimento per la legalità anche oltre la stretta cerchia delle aule di giustizia. —