La Stampa, 26 giugno 2023
il tesoro di Prigozhin
Un furgone Gazel pieno di scatole imbottite di rubli, decine di scatoloni con biglietti rossi da cinquemila, per un totale astronomico di quattro miliardi di rubli, quaranta milioni di euro (al cambio schizzato in alto sabato durante il panico della marcia su Mosca, oggi addirittura 43 milioni). Armi di vario calibro. Lingotti d’oro del peso complessivo di cinque chili. «Polvere bianca non identificata», in mattoncini, in numero di cinque. Passaporti per l’estero in numero di sette, sia quelli con la fotografia del “cuoco di Putin” e nomi diversi, sia quelli emessi tutti a nome di Evgeny Viktorovich Prigozhin, nato il 1 giugno 1961 a Leningrado, ma con le fotografie di uomini completamente differenti. I frutti della perquisizione negli uffici dell’impero di Prigozhin, nel pieno centro di Pietroburgo – la capogruppo Konkord, il media consorzio Patriot, l’albergo Trezzini sul lungofiume Universitetskaya, i numerosi ristoranti e la dacia nel lussuoso compound “La Versailles del Nord” – hanno svelato retroscena interessanti sul mondo dell’uomo che è riuscito a imporre la sua volontà al Cremlino. Ancora puù interessante il fatto che i reportage dal raid della polizia a Konkord, pubblicati con gustosi particolari da affidabili siti di news pietroburghesi come Fontanka, sono spariti dalla Rete subito dopo l’annuncio che i Wagner avevano fatto la svolta a U sulla autostrada federale M4 “Don”.
Non che queste rivelazioni abbiano imbarazzato il capo della rivolta armata, che ha rivendicato ironicamente la proprietà non solo del furgoncino Gazel, ma «anche di due pullmini pieni di soldi», e ha aggiunto che i suoi mercenari «vivono da dieci anni solo di contanti, come da contratto». Il denaro serviva a pagare «salari, ricompense e risarcimenti per i carichi 200», cioè i caduti in battaglia. In altre parole, una cassa comune, presumibilmente in nero, di provenienza sconosciuta: difficile che il business della ristorazione, l’attività ufficiale di Prigozhin, produca introiti tali da poter finanziare un mini-esercito. Lo stesso “cuoco” ha immediatamente spiegato l’origine del “tesoretto": «Quando si trattava di lavorare in Africa, in Ucraina, in altri Paesi, quando si trattava di tormentare l’America, andava bene a tutti, e ora vengono a perquisirci». Un’ammissione più che un’allusione: sono i soldi “guadagnati” nelle attività dei mercenari Wagner in Africa, nelle guerre in Donbass e in Siria, nella campagna lanciata dalla “fabbrica dei troll” nei social americani a favore di Trump, nel Russiagate del 2016. E questo spiega anche, meglio di qualunque teoria cospirazionista sulla “messinscena” del golpe, perché Prigozhin è intoccabile: è evidente che possiede tutte le prove di tutte le operazioni sporche compiute per conto del Cremlino, con una quantità di nomi, cognomi, indirizzi e numeri di conto tale da far vacillare non solo il governo russo.
Soldi e potere, e soldi come prodotto del potere, secondo le regole di quel sistema putiniano dove ci si può arricchire in base alla propria posizione nei cerchi della nomenclatura (invece del tentativo di convertire i soldi in potere degli oligarchi della prima ora). È tutta una questione di affari, sostengono in queste ore numerose fonti vicine al Cremlino. Ramzan Kadyrov, il leader ceceno che è stato il primo in Russia a brevettare il modello dell’esercito privato, ha attribuito l’ammutinamento della Wagner alle «ambizioni di business» del suo capo. A scatenare il tentativo di golpe sarebbe stata «il risentimento per una serie di affari andati male», culminato nell’esplosione di rabbia quando «le autorità di Pietroburgo hanno negato alla figlia di Prigozhin un terreno che lei desiderava». Ksenia Sobchak, la figlia dell’ex sindaco di Pietroburgo negli anni in cui nascevano le carriere sia di Putin che di Prigozhin, crede che la posta in gioco sia stata più cospicua e cita «due fonti altolocate» convinte che il capo della Wagner avesse lanciato il golpe dopo essere stato «staccato» dai finanziamenti del ministero della Difesa. Pochi giorni prima, lo stesso “cuoco di Putin” aveva confermato la fine del contratto della Konkord per la fornitura di pasti ai militari, accusando non meglio specificati funzionari altolocati di voler inserirsi negli approvvigionamenti per guadagnare gonfiando i conti.
In questa ottica, lo scontro di Prigozhin con il ministro Shoigu sarebbe una banale contesa per gli appalti sui quali rubare, e la marcia su Mosca con i carri armati – occupando due capoluoghi di provincia e abbattendo sei elicotteri, un caccia e un aereo da trasporto militare – sarebbe una sorta di richiesta di aumento di stipendio. Difficile che sia una spiegazione sufficiente, anche se altri informatori aumentano ancora la posta, sostenendo che Prigozhin voleva mettere alla Difesa un suo uomo – il generale Surovikin o l’attuale governatore di Tula Alexey Dyumin – per mettere le mani su tutto l’immenso budget militare russo. Ne emerge comunque un quadro di affari e corruzione, in un mondo che non distingue più tra pubblico e privato, e che ragiona con le categorie dei banditi pietroburghesi degli anni Novanta. Non è un caso che il portavoce di Putin, Dmitry Peskov, alla domanda su quali garanzie di incolumità siano state offerte a Prigozhin, ha risposto «la parola del presidente». Il presidente di uno Stato normale non garantisce a parole, firma provvedimenti legali. Ma non si può dubitare della parola di un padrino.
La criminalizzazione del modus operandi della politica russa, iniziata nel 1999 con quel famoso «ammazzeremo i ceceni nel cesso» che rese popolare Putin, si conclude un quarto di secolo dopo con le ovazioni «Wagner! Viva Wagner!» dei passanti di Rostov ai mercenari che avevano occupato la loro città esponendola al rischio di una guerra civile. Perfino intellettuali di opposizione hanno commentato la retromarcia di Prigozhin – ex galeotto che ha messo insieme un’armata di detenuti – con battute offensive nel gergo criminale. Resta da capire che ruolo occupano in questo quadro da “strelka”, regolamento di conti tra bande, i 39 militari dell’esercito regolare russo uccisi dai Wagner per spianarsi la strada. Nella visione del mondo degli “affari”, sarebbero da contabilizzare come “bratki”, fratellini, picciotti, caduti nella sparatoria e onorati con sontuosi funerali e buste messe in mano alle vedove, rigorosamente in contanti come da codice d’onore dei mercenari dell’"orchestra”. —