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 2023  giugno 26 Lunedì calendario

Biografia di Mario Dondero

Prima che un fotografo Mario Dondero è stato un custode dell’umanità; le sue immagini la presentano in modo prorompente e inarrestabile. Sono volti, posture, sorrisi, gesti, tutti mostrati nel loro apparire e nella loro assoluta naturalità. Non c’è un solo suo scatto in cui qualcuno si metta in posa o si offra all’obiettivo dicendo: questo sono io! Dondero fotografa quello che appare nella relazione tra chi è fotografato e chi fotografa. La relazione è il segreto della sua arte. In una intervista ha detto: «Mi interessa molto l’umanità, mi interessa cogliere il calore umano, i climi, le atmosfere in cui vive la gente, mi interessa raccontare la loro fatica, mi interessa raccontare gli esseri umani per quello che sono di pregevole, di straordinario». Così ritrae tre scolari che si recano a scuola in una piovosa giornata del 1964 su una strada di campagna della provincia di Reggio Emilia e coglie Pier Paolo Pasolini e sua mamma, Susanna, nella loro casa romana nel 1962. Nessuno di loro è un personaggio: sono persone con cui s’è relazionato in quel momento.
Ogni suo scatto contiene un’immediatezza straordinaria, così da farci pensare che non si tratta d’un istante fissato una volta per tutte, ma di qualcosa che continua, poiché guardando il rettangolo in bianco e nero si entra a far parte della relazione che ha stabilito con il soggetto della sua fotografia: siamo coinvolti insieme dall’umanità del soggetto e da quella di Dondero, partecipiamo della reciprocità che s’è instaurata tra loro. Forse per questo è stato un fotografo unico nella storia della fotografia italiana e internazionale del XX secolo, di cui è stato uno degli interpreti più profondi e necessari. Antonio Gnoli, presentando una conversazione con Dondero nel catalogo della mostra che si è aperta a Milano (Mario Dondero. La libertà e l’impegno, a cura di Raffaella Perna, Palazzo Reale, fino al 6 settembre, catalogo Silvana Editoriale) ha scritto che «conosce, come pochi, l’arte della vita. Non le durezze, le asperità, gli infingimenti, le delusioni, che a volte l’attraversano. Ma lasemplicità nascosta che la vita a volte ci offre e che raramente sappiamo gustare». Forse perché non mostrano la tragedia, come molti altri fotoreporter, gli scatti di Dondero sono così spontanei, immediati, fluenti: scorrono davanti ai nostri occhi come pezzi di vita che sono stati, e che ancora saranno. Dondero è stato un fotografo e un uomo leggendario. La sua epopea nasce al Bar Giamaica di Milano all’inizio dei Cinquanta, quando una giovane generazione d’artisti, fotografi, scrittori, giornalisti debutta sui giornali e le riviste dell’epoca per raccontare il boom economico, l’arrivo della modernità postbellica, l’euforia dellascoperta della vita stessa dopo il neorealismo, il sogno d’una felicità che sembrava possibile, ma che subito inclina verso qualcosa di malinconico e insieme d’allegro, che è poi lo stigma della giovinezza stessa. Poi Dondero se ne è andato a Parigi nel 1953. Nella capitale francese, tra un periodo e l’altro, ha trascorso quasi quarant’anni, vero flâneur della fotografia, abitando tra alberghetti e camere d’affitto, un nomade che va in giro per il mondo con la sua piccola macchina a tracolla che ogni tanto alza all’altezza dell’occhio e preme il pulsante. Poi c’è stata Roma e ancora Milano, dove era nato nel 1928, e Fermo, dove è morto nel 2015.
Il suo è stato un modo discreto di fissare immagini della realtà, e per quanto si sia sempre professato un fotografo politico e sociale, le sue fotografie sono la testimonianza di un’insopprimibile curiosità per gli altri e per i luoghi dove vivono, una forma di compartecipazione alla vita del prossimo. Non gli uomini e le donne qualunque, ma quelle speciali in cui s’incarna l’essenza stessa della vita.
La fotografia di Dondero ama la bellezza del vivere, che si tratti di una casa borghese, di un tugurio o d’una casa contadina, del ritratto d’un militante politico o quello diun vecchio che legge seduto per terra. Non è per lui mai un fatto estetico, appartiene piuttosto a qualcosa di misterioso; è il fascino che promana da una giovane ragazza o da un gruppo di allegre cameriere a passo di danza in Irlanda nel 1968. Certo, la bellezza femminile emerge come un oggetto costante di ammirazione, colta al volo (Jean Seberg nel 1959 o Stefania Sandrelli nel 1961) perché reca con sé lo stigma dell’eternità del bello e la fragilità del tempo che fugge. Tutto è in movimento anche se tutto è fermo nelle immagini di Dondero, perché il movimento l’ha impresso l’occhio del fotografo e per farlo rivivere ora tocca all’occhio di chi guarda. Le foto di questo curioso ammiratore del mondo richiedono una empatia che sia all’altezza di quella di chi ha scattato le immagini; ma questo non è un problema perché ogni fotografia dice a chi guarda: osservami, non vedi che cosa c’è qui? In questo senso è verissima la frase di Dondero che Raffaella Perna cita all’inizio del suo saggio di presentazione della mostra: «Fotografare la vita è come raccogliere l’oro per strada, tu cammini e ti imbatti in situazioni che ti propone il caso, l’importante è avere i sensi all’erta e captare le situazioni».
L’oro per strada bisogna vederlo ovviamente, ma è quel verbo “captare” che definisce l’atteggiamento di Dondero: trarre a sé una cosa. Il fotografo non si limita a cogliere quello che c’è, ma appunto tira a sé ciò che vede. Del resto il verbo “captare” indica anche il modo di cogliere le trasmissioni radio diffuse nell’aria. Per farlo serve la sintonia, l’accordo e la concordanza. Si tratta di una questione di tensione e d’intensità. Ecco cosa è stato Mario Dondero: un fotografo dell’intensità, ma non fino a creare sconcerto o violare l’altro o le situazioni. Racconta la figlia Maddalena che una volta per strada a Milano, in corso Magenta, scorge un uomo elegante di una certa età che s’appoggia al palo del semaforo: s’allaccia la scarpa. Mario è catturato dalla scena: un signore in equilibrio su un piede solo, una foto bellissima. Ma decide di non scattare e dice a Maddalena: «Chi sono io per rubargli questo attimo di intimità?». Dalla sua ha anche il pudore del guardare.