il Fatto Quotidiano, 26 giugno 2023
La Cina rallenta e per l’economia mondiale è un problema
All’inizio dell’anno, quando la Cina ha revocato le restrizioni per il Covid-19, un’ondata di ottimismo ha attraversato l’economia mondiale. Il Paese ha registrato nel primo trimestre del 2023 un Pil in rialzo del 4,5% annuo e del 2,2% sul trimestre. Ma l’euforia è stata di breve durata. I problemi strutturali della Cina sono riemersi e, dal mese di aprile, la crescita del Paese ha iniziato a rallentare. Nel secondo trimestre potrebbe anche essere prossima allo zero, secondo recenti dati economici. La situazione preoccupa l’economia mondiale. Nel suo ultimo rapporto, il Fondo monetario internazionale stimava che la crescita della Repubblica popolare avrebbe rappresentato non meno del 23% della crescita globale, circa il doppio del contributo degli Stati Uniti.
Quello che emerge dagli ultimi dati è soprattutto la crisi di due dei principali pilastri dell’economia cinese. Il primo, e probabilmente il più importante, è il settore immobiliare. Dalla fine del 2021, la bolla immobiliare cinese, principale motore di crescita degli ultimi anni, rischia di scoppiare per la crisi del principale big developer del Paese, Evergrande. Il gigante dell’immobiliare ha costruito e venduto case su case per progetti spesso faraonici ma, per finanziarli, ha accumulato debiti, contando sul regolare aumento dei prezzi. Quando però i prezzi hanno smesso di crescere, il debito è diventato insostenibile e uno dopo l’altro i progetti sono stati sospesi o abbandonati. Dopo il fallimento di Evergrande, la crisi si è estesa in breve tempo agli altri big developer e quindi a tutto il settore immobiliare. I prezzi delle case e le transizioni sono crollate. La crisi ha pesato anche sulle casse degli enti locali, gli attori economici pubblici più attivi nella Cina odierna, che a lungo hanno finanziato i loro investimenti con la vendita dei terreni, diventati sempre più rari. E più la crisi dell’immobiliare si aggrava, più minaccia l’intera economia cinese. Dopo alcuni mesi di relativa calma, il mercato immobiliare è di nuovo precipitato pericolosamente a maggio. Complessivamente, gli investimenti immobiliari sono diminuiti del 7,2% nei primi cinque mesi dell’anno, dopo un calo del 6,2% sui primi quattro mesi.
Insomma, contrariamente a quanto si credeva due mesi fa, la crisi immobiliare non è in via di risoluzione, tutt’altro. A ciò si aggiunge una seconda crisi, quella dell’export. Fino alla metà del 2022, le esportazioni hanno rappresentato un elemento centrale della crescita cinese. Ma, a causa del calo della produzione e della domanda dei mercati occidentali, il commercio estero ha subito una battuta d’arresto. Se, con la fine delle restrizioni, l’export cinese ha conosciuto un balzo del 14,5% a marzo e aprile e dell’8,5% su un anno, a maggio la situazione si è deteriorata e le esportazioni sono crollate del 7,5% su un anno (in dollari). Queste variazioni sembrano rivelare una generale tendenza al ribasso della domanda mondiale di prodotti cinesi. Un fenomeno che si può spiegare, in primo luogo, con la diminuzione della domanda industriale in Occidente. L’export verso i Paesi dell’Ue, ad esempio, è diminuito del 4,9%. In secondo luogo, con gli effetti delle sanzioni Usa e delle restrizioni alla vendita di tecnologia, in particolare di micro-chip di ultima generazione. In un anno le vendite agli Stati Uniti sono calate del 15,1% e del 27,2% a Taiwan. In questo contesto, il settore manifatturiero cinese non è incentivato a investire. Nel primo trimestre gli investimenti privati avevano registrato un lieve incremento dello 0,4% su base annua. Ma a maggio si sono contratti dello 0,1%, un livello storicamente basso per la Cina.
Tale depressione contribuisce a pesare sul settore industriale, che risente sia della crisi immobiliare che della crisi delle esportazioni. A maggio la produzione industriale è aumentata del 3,5% su un anno, meno delle previsioni e meno del +5,6% registrato ad aprile. Il problema è che anche gli investimenti pubblici e i consumi stanno dando segnali di debolezza. Gli investimenti delle aziende pubbliche sono rallentati, passando dal 9,4% di gennaio-aprile all’8,4% di gennaio-maggio. Le vendite al dettaglio, se restano ancora dinamiche su un anno, con un incremento del 12,7%, sono calate dell’0,7% a maggio. Se alcuni economisti restano ottimisti sulla ripresa del Paese, altri ritengono che l’andamento del primo trimestre sia l’indizio di un indebolimento economico più strutturale. L’economia cinese rallenta da diversi mesi e non è un caso che ora sia minacciata dalla deflazione o, quanto meno, dalla una debole inflazione. I prezzi alla produzione sono diminuiti del 4,6% in un anno a maggio e i prezzi al consumo sono aumentati solo dello 0,4%.
Il rischio sarebbe che questa debole inflazione pesi sulla capacità delle imprese di investire e di aumentare i salari, e di pesare di conseguenza anche sui consumi e sulla domanda interna. Si andrebbe in questo caso verso uno scenario alla giapponese, con la crisi immobiliare che ha provocato tre decenni di crescita quasi nulla. Tutte queste cifre hanno riportato sotto i riflettori l’idea di un piano di rilancio. Il 16 giugno, il primo ministro cinese Li Qiang ha detto che il governo sta riflettendo a misure per sostenere la “domanda effettiva”, per “rafforzare l’economia reale” e “ridurre i rischi nei settori chiave”.
La recente decisione della Banca centrale di tagliare il tasso di rifinanziamento da 2,85% a 2,75%, per la prima volta in nove mesi, sembra confermare la volontà di Pechino di agire. Ma se i mercati sembrano entusiasti all’idea di questo rilancio, diversi elementi inducono alla prudenza. Innanzitutto, il livello complessivo del debito del settore privato cinese è considerevole e supera il 300% del Pil. In queste condizioni, il rilancio tramite i tassi di interesse e il debito risulta difficile. Tanto più che le prospettive non sono buone. Né è esclusa una situazione simile a quella vissuta nell’eurozona nel decennio 2010, quando il calo significativo dei tassi ha evitato la deflazione, senza rilanciare realmente la crescita. Inoltre, a differenza del 2008 o del 2015, ora il governo centrale è più restio ad agire: i precedenti piani di rilancio hanno causato enormi problemi di cui la crisi attuale è una conseguenza. Questa volta Pechino cercherà di essere più prudente. Sarà difficile anche individuare i settori chiave che fruiranno del piano di rilancio. Secondo indiscrezioni, sono questi tre: tecnologia, consumi e infrastrutture.
Il solo rilancio delle infrastrutture, il più facile da attuare per Pechino, non basterà però a risolvere i problemi economici del Paese. Sul piano dei consumi, Xi Jinping ha detto di sostenere il “ribilanciamento economico” del Paese. Che però non è facile da mettere in pratica: per raggiungere un consumo forte e costante servono salari più alti. Ma con le esportazioni in calo, la competitività dei salari cinesi pone problemi. E non è detto che la Cina sia in grado di passare ad un’economia di servizi ad alto valore aggiunto. Tanto più che l’esperienza occidentale dimostra che questa transizione è accompagnata da un deterioramento della produttività creando una pressione sui salari. Il consumo si favorisce prima attraverso il debito e non compensa le perdite di produttività. L’Occidente ha visto il suo tasso di crescita rallentare bruscamente negli ultimi 50 anni. Di qui l’idea di Pechino di sviluppare il settore tecnologico.
L’esperienza degli Stati Uniti dimostra che lo sviluppo tecnologico non risolve tutti i problemi e non impedisce una crescita debole e non omogenea. La Cina è dunque alla ricerca di un nuovo modello economico per uscire da una grave crisi economica strutturale: non può tornare al suo vecchio modello, basato sui bassi salari, e nessuna delle possibilità offerte dallo sviluppo occidentale le consente di pervenire al tasso di crescita del 5% annuo a cui aspira. Il piano di rilancio sarà, quindi, una soluzione a breve termine e non risolverà nulla. Sembra, dunque, che in prospettiva bisognerà farsi all’idea di un rallentamento dell’economia cinese che, venendo meno uno dei principali motori degli ultimi trent’anni, rischia di diventare un problema per l’economia mondiale.