Domenicale, 25 giugno 2023
Biografia di Nancy Cunard
Nessuno seppe mai decidersi sul colore dei suoi occhi: erano blu? turchesi? acquamarina? Il kajal li intagliava come pietre dure e fredde, l’iride più chiara della sclera. Parevano incastonati sopra l’ossuta geometria del volto come nelle maschere antiche. Allo sguardo che li incrociasse dicevano fierezza, sfida, pericolo.
Gli occhi di Nancy Cunard (1896-1965) furono il volto della Jazz Age, della «festa mobile» di Hemingway, dei Roaring Twenties, della generazione perduta: spietata eleganza, velocità, scatto, sfrenatezza, linde sagome di stile, dissolutezze e dissipazioni. A Parigi, dove era giunta nel 1920 dopo un’infelice adolescenza di ereditiera (i transatlantici Cunard, un padre assente, una madre ape regina dei salotti londinesi, la presentazione a Buckingham Palace nel 1914, con uno strascico di tulle seminato di petali di rosa), la conobbero tutti: e quasi tutti in senso biblico. Alta, elegantissima, nervosa, alabastrina e bionda, promiscua per vocazione, rese felici e disperò Ezra Pound, Aldous Huxley, Louis Aragon, decine di artisti e centinaia di ragazzi da una notte; posò per Man Ray e per Brâncu?i, dettò il successo o la rovina dei locali a Montparnasse.
La bocca sottile piegata all’ingiù, nella sua bellezza si concentrava una violenza facile a fiondarsi sulla sensibilità degli altri. Poteva insultare oppure scagliare le braccia inanellate di gioielli d’avorio africano, colpire, ferire, schiantare chi non l’amasse e soprattutto chi la amasse.
Nella nuova biografia dedicatale da Anne de Courcy, Nancy Cunard assomiglia a un uccello ferito, un astore come nel meraviglioso romanzo di T.H. White, che concentra la sua rabbia e la rilascia nell’attacco dell’artiglio. Era cresciuta tra mille privilegi, non solo per il censo ma per la formazione intellettuale: ragazza, aveva viaggiato per studio in Italia, in Francia, in Germania; e nel circolo mondano della madre non vi erano solo baronetti e ministri, ma i fratelli Sitwell, che la incoraggiarono e ne pubblicarono le prime poesie su Wheels. Ma recava dentro sé un’ira cieca, un odio iperbolico per il mondo da cui proveniva e soprattutto per Maud, di cui non tollerava d’essere figlia.
Tentò una propria strada in tre modi. Uno era la dedizione irresponsabile all’alcool (non era mai davvero ubriaca, non era mai meno che tipsy) e al sesso compulsivo, tristemente scisso dal piacere (la Courcy raccoglie le testimonianze della frigidità di Nancy).
Il secondo era una scompigliata pietà per gli ultimi, i derelitti, quelli dalle cause perse: a loro difesa si sporcava le mani.
Il terzo era l’espressione artistica, sia diretta sia mediata. The Hours Press, dal 1928 la sua piccola casa editrice (stampava lei stessa nella casa di campagna in Normandia), pubblicò un florilegio eletto, Norman Douglas, Robert Graves, la prima prova di Samuel Beckett. Lei stessa, plasmata da Ezra Pound, pubblicò diverse opere di poesia: da pochissimo, grazie a De Piante editore e alla preziosa cura di Annalisa Crea, è possibile leggerla in italiano. Parallax, la sua pagina più importante, è un corpo a corpo con La terra desolata (in realtà il corpo a corpo con T.S. Eliot ci fu pure in altra sede, come one night stand) e merita di essere conosciuta.
Il vero capolavoro di Nancy Cunard fu la sua lotta per la difesa dei diritti dei neri. In questo non fu soltanto una testimone della Jazz Age, ma una macchina da guerra. Imparò ad amare i neri come tutti a Parigi nel suo tempo, grazie agli artisti del music hall, a Bricktop, al ritmo, celato appena da una piuma di fenicottero, del corpo nudo di Joséphine Baker, e grazie alla passione per l’art nègre degli amici cubisti e dadaisti. Ma si spinse dove nessuno osava: fu la prima donna del suo rango ad accompagnarsi con un nero, il pianista Henry Crowder, conosciuto all’hôtel Luna di Venezia nel 1928. Viaggiava con lui, dormivano sotto lo stesso tetto: la madre di Nancy, quando lo seppe, non riuscì nemmeno a rendersi conto che potevano amarsi, il suo stupore si fermò assai prima: «Ma mia figlia veramente conosce un nero?!». Nancy rispose con un pamphlet crudele e accusatorio, come nella sua natura. Nel 1931 si mise a raccogliere quella che sarebbe diventata la prima grande antologia di black culture, il volume Negro (1934, tuttora ristampato regolarmente) nel quale artisti neri e bianchi, scrittori, storici, sociologi, esponenti delle più varie discipline provvedevano lo state of the art di un tema avveniristico. Nancy fu minacciata di morte (tra l’altro dal Ku Klux Klan), ma tirò dritto, ed è questa l’impresa che consegna una donna difficile, per alcuni tratti insensibile e per altri ipersensibile, egoista e idealista, nata ricchissima e morta povera, sola e demente a 69 anni d’età e 29 chili di peso, alla storia. La biografia di Anne de Courcy, che conosce la Jazz Age così a fondo da snodarne il filo con grazia noncurante, si legge con autentico piacere. Resta però discutibile l’idea di sostituire la ricorrenza della parola niggers, dove l’autrice si trova a riportarla citandone la fonte, con la lezione «n____s», che ha l’effetto di sottolinearne morbosamente la scorrettezza, come se camuffare una parola pronunciata, poniamo, 93 anni fa da una qualunque cretina londinese, possa giovare a qualche causa: seriously? Tale pratica è un perfetto esempio di quell’edulcorazione della realtà che Nancy Cunard detestava sopra ogni cosa