Avvenire, 25 giugno 2023
Pertini che incontra il suo carceriere Guida
Santo Stefano, isola dei destini incrociati. Escrescenza vulcanica a meno di un miglio da Ventotene, nella sua stessa genesi custodisce il suggerimento della destinazione d’uso: la geologica moltiplicazione cellulare del vulcano ha imposto a ciò che doveva nascere unito una separazione gemellare, adiacente ma non troppo. Scoscesa e ruvida, priva di ogni approdo, faticosa come una corvée. Splendida e orribile allo stesso tempo. Nel grumo di dolore che è l’istituto penitenziario di massima sicurezza, di massima sofferenza, fine pena mai, si sono trovati faccia a faccia come le due isole generazioni di aguzzini e detenuti, torturatori e vittime, fascisti e partigiani. Solo per caso, per il burocratico ritardo delle nomine ministeriali e il concitato anticipo degli arresti, i due protagonisti di questa storia si sono solo sfiorati nella cavea della sofferenza di Santo Stefano per incontrarsi più tardi, al culmine delle carriere e della vita. Il primo è uno di quelli che il regime nei ragguagli radiofonici chiamava i “ribelli”. Un partigiano, un socialista, un compagno che aiutava altri ribelli a espatriare. Fu arrestato sotto falso nome tornando dalla Francia dove avevano imbastito altri processi per le sue credenziali politiche. Utopica Europa di libertà immaginata a meno di un miglio da quella sponda e che sempre tarda ad arrivare. Evase da Regina Coeli, fu arrestato ancora. Definitivamente libero solo nel ’43 con la caduta del fascismo. Rimase un anno nella cella di Santo Stefano. Sul treno che lo portava a Napoli per imbarcarsi con i ferri ai polsi in una lettera alla madre racconta come, alla lettura della sentenza che lo condanna a 11 anni, scattò in piedi urlando “Viva il socialismo abbasso il fascismo!” Secondini e carabinieri gli saltarono addosso tentando di chiudergli la bocca. Quasi lo uccidevano. Raccontò che all’alba, in quell’oscena cella di Santo Stefano, placenta carceraria minuscola e oscura, dal mare arrivava un canto d’amore, sentiva il profumo dei fiori sbocciati nella notte. Ma non c’era promessa né dolcezza. Si accasciò trafitto da un dolore acuto per la sua giovinezza che giorno dopo giorno si andava spegnendo. Il secondo protagonista è il direttore del carcere di Santo Stefano tra il 1939 e il ’43. Ha fatto carriera nella polizia fascista restando nell’ombra dell’ufficio confino, divisione affari generali e riservati. Con prudenza e preveggenza, qualità degli infiltrati, si adatta senza esagerare alla ferocia del regime. Non vuole scontentare il vecchio potere né quello che ormai si appressa. Il 28 luglio del ’43 una corvetta tenta l’approdo a Santo Stefano. Unico passeggero a bordo per la traduzione al carcere è Benito Mussolini nell’inedito ruolo di prigioniero. Badoglio lo aveva mandato al confino. Il nostro direttore si rifiutò di farlo sbarcare in quell’inferno dei vivi col pretesto di non riuscire a garantirne la sicurezza: 900 confinati occupavano i tre livelli del carcere costruito sul modello del leggiadro teatro San Carlo di Napoli e una guarnigione tedesca presidiava il radar sull’isola. Mussolini riparò a Ponza. Ad agosto il direttore viene trasferito a Roma. Servizi segreti. Forse per fiancheggiare la Resistenza. Con la Liberazione approfitta dell’amnistia di Togliatti e traghetta con successo nella polizia della nascente democrazia. Con lui migliaia mettono il vestito nuovo, come una mimetica per attraversare le linee sino a ieri nemiche. Non si poteva fare altrimenti, diranno da una parte dall’altra: conoscono la macchina dello Stato, le sue virtù, i vizi. Sanno dove mettere le mani. Ma con loro nella Repubblica trasloca anche un sentimento profondo e nascosto di sopraffazione, di umiliazione da uomo a uomo che ogni tanto, come un rigurgito, torna a scuotere le piazze, le questure e i commissariati, le carceri della nostra fragile democrazia. A molti è successo di essere “attenzionati” dalle forze dell’ordine, afferrati, spintonati in un commissariato. Figli liceali manganellati durante la protesta per la morte di un ragazzo in alternanza scuola-lavoro. La sopraffazione violenta e l’umiliazione da parte di un uomo in divisa è qualcosa di sconcertante, lascia il segno, spegne ogni fiducia. Nello sguardo e nei gesti di quell’uomo senza nome e senza codice identificativo c’è il cortocircuito della nostra storia peggiore. L’ex direttore è questore a Gorizia, a Torino. Il ministro Franco Restivo nel ’69 lo impone a Milano per dirigere le indagini sulla strage di Piazza Fontana. Indica e sottoscrive la matrice anarchica del depistaggio. Se durante il ventennio violenza squadrista e garanzia d’impunità si fecero dottrina e istituzione, durante l’ambigua epoca democristiana ordine e controllo vengono affidati all’oscurità delle affiliazioni, alle mezze parole, ai rapporti indicibili. L’ex direttore è questore a Milano, diretto superiore del commissario Calabresi quando Giuseppe Pinelli vola dal quarto piano della questura dopo 48 ore di fermo. Suicidio disse l’ex direttore di Santo Stefano. Anche il processo, penoso e peloso, per la morte dell’anarchico Pinelli, confermò che suicidio non era. Ecco finalmente i destini che s’incrociano. È il 1970. Il “ribelle”, ex detenuto a Santa Stefano, è in visita a Milano. Si chiama Sandro Pertini, è il Presidente della Camera dei Deputati. Alla stazione Centrale, insieme alle autorità, ad accoglierlo c’è il questore, l’ex direttore del carcere di Santo Stefano, Marcello Guida. Pertini scende dal treno e Guida si presenta subito porgendogli la mano. L’ex detenuto si ferma, guarda negli occhi l’ex direttore, procede oltre rifiutando il saluto. Moriranno entrambi nel 1990, pochi mesi uno dall’altro