Una foto angelica di Anna Maria Ortese, scattata nel novembre del 1940, accoglie il lettore sulla soglia di Vera gioia è vestita di dolore Lettere a Mattia (a cura di Monica Farnetti e con una nota di Stefano Pezzoli, Adelphi, pp. 172, € 14,00). L’immagine fa da sentinella a un mannello di lettere e di cartoline, tutte inedite e annotate con massima precisione, inviate tra il maggio del 1940 e il gennaio del 1944 a Marta Maria Pezzoli, più giovane di Anna Maria Ortese di qualche anno, e da lei ricordata, con il nomignolo di Mattia, come «ultima amica» o «sola sorella».

Di fotografie nelle lettere si parla costantemente: Ortese ringrazia di averne ricevute e, a sua volta, altre ne chiede e ne manda. «Mi son fatta giorni fa delle fotografie, io stessa, dentro uno specchio –– scrive –. Se verranno ‘curiose’, come immagino te le manderò».   Le inquadrature di cui si conserva traccia non ratificano gli eventi, piuttosto catturano un frammento di vita senza ansia. Inverano il sogno di un’anima libera, piantano il seme di una felicità possibile e ne lasciano segno. Alla sua interlocutrice, Ortese scrive: «Cara Mattia, i tuoi occhi buoni, dalla piccola fotografia, mi hanno fatto bene, concesso il sorriso, che, sulle labbra, tu non hai». Poco dopo, racconta all’amica l’emozione di un viaggio, sollecitato anche qui dalla luce speciale di un ritratto, intravisto per caso: «Era (così attraverso il giornale) un giovane affascinante: con occhi talmente buoni, cari, strani. La mia letizia, la mia commozione nell’andare verso di lui, ignota, a sentire la sua musica, erano enormi. Son partita quasi di notte, ma non c’erano più stelle».

Una dimensione rarefatta del vivere, quasi un’epifania, si rivela attraverso una foto di Katherine Mansfield, «la purissima, la incantata Mansfield», come la chiama altrove. La luce di un mondo luminoso, da cui il male, l’angoscia, il dolore sono stati banditi, trova negli occhi fermi della autrice di Poveri e semplici la migliore celebrazione: «avrei proprio avuto una giornata pessima e triste, se la sera, prima di addormentarmi a casa dei miei amici, non avessi, in un libro, trovato una fotografia di Caterina Mansfield, della quale m’ero ricordata sentendone da te parlare. Hai mai visto questa fotografia? […] Mattìa, com’è incantevole questa donna. Ti prego, guarda il suo ritratto e poi me lo dirai. Nei suoi occhi pare che vi sia tutta la luce più candida e più misteriosa del mondo, anzi non è neppure uno sguardo di questa terra. La luce vaga ch’è negli occhi dei bambini o nei cieli sull’alba […] Quel volto, perché io non mi son fermata a rileggere il libro, mi ha fatto un curioso bene; infatti, dalla mattina appresso io mi sentii più tranquilla, più chiara e, sebbene questa tranquillità a me non solita, m’inquieti, pure godo di questa stanchezza e ho un desiderio quasi costante d’essere calma e buona, soprattutto calma e buona».

Nelle successive lettere, l’idolatria per la Mansfield non si attenua, e la sua memoria permane come «un dio di pace e di bontà», che porta con sé il «dono di gioia e di poesia», fino a diventare, in Corpo celeste, simbolo della «inspiegabilità tenera delle cose».

Rovescio problematico e dolente di questa visione incantata dell’esistenza, risuona – nella trama dell’epistolario – il basso continuo di un sentimento doloroso, che resta dominante e che costituisce il lato buio di Anna Maria Ortese. Mischiata alle cronache della vita privata (i drammi familiari, i progetti letterari, il fascino di alcune città, le inquietudini di una scrittrice giovane, in cerca di riviste per i propri racconti o versi) la sofferenza diventa il colore dominante delle emozioni, e sarà il lievito della sua arte. L’angoscia riappare come un tema ostinato e mai dissolto, tanto che la scrittrice può definire sé stessa «debole e incerta come una schiava […]; come una fontana, che, solo quando passa il vento, si agita e scintilla; e poi mormora umile a terra». L’emarginazione di fronte alla calda vita spunta come un tarlo, la fa sentire come «un mendicante», che raccatta solo le «briciole che mi cadono dalle mani della Armonia».

Nel rapporto con il tempo e con gli eventi domina un «livore selvaggio», fecondato di pena e di insofferenza, uno stato d’animo che diventa, tuttavia, ricchezza di un destino personale. Mentre si trasforma nel lievito della scrittura, coincide con la ragione stessa dell’arte, perché «è soprattutto sul dolore che bisogna lavorare per farne dolcezza».

Lo strazio dell’animo e la felicità delle parole si saldano in un rapporto complice, che definisce la storia intera di Anna Maria Ortese: «ora, per me, la gioia è quasi sempre nella sofferenza. Ché quest’ultima è la mia vera patria e io l’ho adornata e vorrò adornarla appunto come una cosa diletta, come la terra, come la casa che amo».

Questo grumo di angoscia congiunge l’esordio della scrittrice con i risultati raggiunti negli anni più tardi. Alle spalle delle sue lettere c’è «la superbia scatenata di una giovinezza allucinata e sofferta», quella di cui racconta negli Angelici dolori del 1937, e si risente il «furore mesto di belva», che accompagna i singoli momenti incrinando i sentimenti privati e la vita intorno.

Risfogliando Il mare non bagna Napoli, il grande libro del 1953, Ortese ribadisce il peso della sua nevrosi nella costruzione del libro: «Ebbene, la scrittura del Mare ha un che di esaltato, di febbrile, tende ai toni alti, dà nell’allucinato: e quasi in ogni punto della pagina presenta, pur nel suo rigore, un che di troppo». L’ «oscura sostanza del vivere», la «infinità cecità» che avvolge la mente è per lei un «nero seme», che dà frutti insieme avvelenati e seducenti, terribili e gloriosi.

La sintesi di una intera stagione narrativa, Anna Maria Ortese la consegna al passaggio che dà il titolo a queste lettere e ne definisce il motivo: «Io amo chi mi vuol bene per la mia disperazione – quello sento fratello o sorella – quello amo. Spero che sempre, fino alla fine, Iddio mi faccia conoscere la santa disperazione, che porge alle creature il bicchiere d’ebbrezza e apre loro gli occhi sul mare della realtà. Vera gioia, è vestita di dolore. Vero dolore, è vestito di gioia».

Gli esseri umani camminano «in vie di fango, tutti indistintamente» e «se alcuni sono felici, è perché non guardano dove sono costretti a marciare, ma in alto». Come direbbe Kierkegaard, l’anima angosciata, rinchiusa nella sua tana di volpe, «cerca sempre uscite, e trova solo entrate, che la riconducono a sé stessa». In una tale prigione, Ortese ritrova il suo ruolo: «scrivere, è uguale al canto raccolto e disperato del mare, nelle insenature segrete. È il rifugio triste, non è la vita».