la Repubblica, 25 giugno 2023
La morte di Cesare
La notte tra il 14 e il 15 marzo dell’anno che noi datiamo 44 a.C., Caio Giulio Cesare aveva dormito male, un sonno agitato funestato da strani sogni. Qualche giorno prima l’aruspice Spurinna, venuto a fargli visita, aveva detto con insolita convinzione, come se l’esortazione fosse in realtà una notizia: «Guardati Cesare dalle idi di Marzo». Cesare in quanto a presagi si considerava un laico, il futuro letto nelle viscere d’un pollo o nel volo di uno stormo d’uccelli lo aveva sempre fatto sorridere. Quella volta però, uscito Spurinna, anche Cornelio Balbo era tornato sull’argomento: «Quando andrai alla Curia di Pompeo, Cesare, ti scongiuro, assicurati la scorta della fedele guardia ispanica». Altre voci inquietanti giravano in città, una soprattutto, che volesse abolire le istituzioni repubblicane facendosi re. Un colpo di Stato per il quale era prevista la pena di morte. Cesare sa che della repubblica ormai è rimasto ben poco e che sarebbe meglio per tutti se neanche quel poco ci fosse. L’estensione dei domini di Roma è ormai tale da richiedere un governo più concentrato, più veloce, più efficiente.
Anche la sua quarta moglie, Calpurnia, che lo ama, deve aver presagito qualcosa, da alcune notti smania nel sonno e geme. La sera prima Cesare ha cenato da Marco Lepido, tra i commensali ha visto Decimo Bruto Albino, che gli è ostile, meravigliandosi che il padrone di casa abbia fatto un gesto così indelicato, invitandolo. A un certo punto proprio Decimo Bruto, quasi sfidandolo, ha lanciato questa ambigua domanda: «Quale sarebbe per te la morte migliore, Cesare?». Ha risposto fulmineo, come sempre: «Non vorrei una morte alla quale ci si possa preparare. La morte migliore è quella improvvisa». Da quel momento lo scambio di pettegolezzi e battute s’era come spento, ne aveva approfittato per ritirarsi prima del tempo.
Lo schiavo ha finito di assestargli la toga, è tempo di andare, deve presiedere l’assemblea dei senatori alla Curia di Pompeo anche se preferirebbe restare a casa, deve preparare una impegnativa campagna militare contro il potente regno dei Parti, al di là dell’Eufrate, al confine con la provincia diSiria, vorrebbe concentrarsi sulla sua complessa organizzazione. Invece esce, non sa che sta abbandonando per l’ultima volta ladomus publica che gli compete come alloggio di Stato. È un uomo vigoroso, ha 56 anni, soffre di qualche acciacco. Ha perduto i capelli alimentando qualche motteggio da parte delle sue truppe che del resto hanno fatto di peggio. Una delle sue prime missioni all’estero era stata convincere Nicomede, sovrano della Bitinia sul mar Nero, a cedere alcune navi di rinforzo alla flotta romana. Alla fine il sovrano aveva acconsentito, nel frattempo però aveva fatto di Cesare il suo amante. Qualcuno riferì a Roma che Cesare era diventato “la regina di Bitinia”, s’era riso molto, i soldati durante il trionfo cantilenavano irridenti: «Trionfa Cesare che sottomise i Galli; non trionfa Nicomede, che sottomise Cesare».
Insignificante distrazione giovanile. Nel suo vigore rientra anche un’inesausta energia amorosa. Svetonio ha abbozzato un elenco delle matrone da lui convinte a tradire i mariti: Postumia, Lollia, Tertulla, Mucia, poi le vergini, le schiave, le barbare e il grande amore: Servilia che per vent’anni ha colmato di beni compresa una perla da sei milioni di sesterzi. Servilia è la madre di Marco Bruto, non è impossibile che quel figlio l’abbia concepito con lui – così almeno si sussurrò a Roma dove ogni pettegolezzo trova ascolto e diffusione.
Quando è sulla porta sua moglie Calpurnia lo stringe sgomenta. Gli confida in un orecchio d’aver di nuovo sognato che la casa veniva scoperchiata da una tempesta, ha visto il suo corpo coperto di sangue. Cesare la bacia rassicurandola, sale sulla lettiga, s’avvia.
Circa sessanta persone presero parte alla congiura. Tra di loro, come in ogni complotto politico, c’era di tutto: pompeiani, ex cesariani che l’avevano abbandonato anche per risentimento personale, mestatori professionisti, sinceri difensori della Repubblica. Cassio Longino e Marco Bruto erano i capi, quest’ultimo nipote di Catone, era forse figlio di Cesare, come abbiamo visto; si può capire che fosse agitato da sentimenti complessi.Dante lo caccerà tra i traditori; Shakespeare ne farà un eroe della libertà.Si ritiene comunque che la maggior parte dei congiurati fossero animati da retti sentimenti repubblicani. Cicerone, che sarà ucciso l’anno dopo, farà in tempo a dire che agirono: «Con animo virile ma con intelligenza da bambini».Cesare attraversa più o meno quella che oggi è piazza Venezia, prosegue per l’attuale via delle Botteghe Oscure, arriva alla Curia di Pompeo dove il Senato occasionalmente si riunisce. Scorge l’indovino Spurinna che aveva evocato le Idi di Marzo e gli si rivolge scherzoso: «Come vedi le Idi di marzo sono arrivate». «Ma non sono ancora passateI senatori affollano l’emiciclo avvolti nelle loro tuniche candide dal bordo purpureo, novecento persone, la maggior parte pronti a servire qualunque padrone, sono quasi tutti presenti per l’occasione. Cesare s’avvia alla presidenza, è solo, saluta qua e là, d’improvviso Tullio Cimbro gli si inginocchia davanti afferrandogli la toga, chiede un atto di clemenza per suo fratello. Cesare è infastidito dalla teatralità del gesto più che dalla richiesta: faremo, vedremo. Quando si volge, si rende conto che adesso ha intorno Cassio, Bruto, Casca, Trebonio, Ponzio Aquila. Tullio Cimbro ora gli stringe le braccia, è una violenza, gli altri snudano le lame nascoste sotto la toga, cominciano a colpire. Tenta di reagire ma ha in mano solo lo stilo, lo pianta da qualche parte, sente il sangue colare, s’addossa alla statua di Pompeo per avere almeno un fianco protetto, scorge suo figlio Bruto che sta alzando il pugnale, fa a tempo a consegnare alla storia le ultime parole: «Tu quoque, fili mi …». Si copre il volto con la toga, crolla.L’ispezione del cadavere da parte di quello che oggi chiameremmo il medico legale, accertò il numero delle trafitture, ventitré in totale, solo il secondo colpo, quello al petto, era stato mortale. Agli altri sarebbe sopravvissuto.Così Svetonio: «Gli furono inferte ventitré pugnalate e solo al primo colpo emise un gemito senza dire parola… Quando tutti gli assassini furono fuggiti in disordine, rimase a lungo a terra, morto, poi venne deposto su una barella e tre schiavi lo portarono a casa. Morì nel suo cinquantaseiesimo anno d’età e fu annoverato tra gli dei… Quanto ai suoi assassini, nessuno gli sopravvisse per più di tre anni e nessuno perì per cause naturali… Alcuni si diedero la morte con lo stesso pugnale col quale avevano osato trafiggerlo».