la Repubblica, 25 giugno 2023
Un giro a Torino
Inutile girarci attorno, la prima volta che sono stato a Torino, la città non mi è piaciuta. Era il novembre del 1995, di sicuro mi portavo appresso pregiudizi e stereotipi, il clima era grigio, ero lì per lavoro ma insomma: nella lunga passeggiata che riuscii a concedermi fra le strade regolari e i portici ricavai l’impressione di un luogo severo, quasi arcigno, sul filo dell’inospitalità. Quando visito una città in cui non sono mai stato prima, mi chiedo sempre come sarebbe abitarci. Mi figuro situazioni di vita quotidiana, vedo se mi mettono allegria, se mi immagino felice in quel posto. Feci questo test anche con Torino e il risultato non fu positivo. Camminavo sotto portici male illuminati (o almeno così li ricordo, e spesso il ricordo è solo una manipolazione della nostra mente che cerca di rendere coerente la percezione con l’impressione), fra vecchi negozi che davano un odore un po’ stantio e pensavo che in quella città non avevo troppa voglia di tornarci.
Come è accaduto che a distanza di pochi anni Torino sia diventata per me una città così attraente? La città italiana in cui, più di ogni altra, penso di poter vivere e lavorare e sentirmi a mio agio.
È un fenomeno bizzarro, unico per me, un cambiamento così vistoso, una rotazione così radicale sull’asse di gusti e convinzioni. Ci sono molte ragioni visibili per questo. Dopo le Olimpiadi del 2006 Torino ha preso vita e luce. Proprio la luce è stata (anche con certe bellissime installazioni) parte importante della trasformazione del paesaggio urbano. Si sono moltiplicati gli interventi di recupero di antichi insediamenti industriali. Il mio preferito è il complesso Ogr, dove l’acronimo sta per: Officine grandi riparazioni. Un immenso stabilimento dove si riparavano i treni e che adesso è uno spettacolare luogo di arte e di eventi.
La vita culturale è diventata brulicante di luoghi e di occasioni. Per deformazione professionale mi vengono da citare il Salone del libro e il Circolo dei lettori.
Ma non sono sicuro che queste cose (tante) siano state da sole responsabili del mio cambiamento di attitudine verso la città. C’era ovviamente qualcosa che non ho visto, di cui non mi sono accorto la prima volta.
Altri hanno intuito con più rapidità il potenziale, visibile e nascosto, del luogo.
Scriveva Nietzsche in una lettera all’amico Heinrich Koselitz: «Su Torino non c’è niente da ridire: è una città magnifica e singolarmente benefica. Il problema di trovare una quiete da eremita in strade straordinariamente belle e larghe, all’interno dei migliori alloggi che una città possa offrire, vicini, anzi vicinissimi al suo centro – questo problema apparentemente insolubile per le grandi città qui è risolto. Il silenzio qui è ancora la regola; l’animazione, la “grande città”, è in certo qual modo l’eccezione. E tutto ciò con quasi 300.000 abitanti». A Torino, in sole tre settimane, Nietzsche scrisse Ecce homo, la sua ultima opera, subito prima della pazzia e della morte. Una delle più discusse, forse la più enigmatica, certamente la più difficile da classificare.
Sarebbe stata la stessa opera se non fosse stata scritta a Torino? O addirittura: sarebbe stata scritta se Nietzsche non fosse andato a vivere e a lavorare in quella città così apparentemente sobria, nitida e lineare (anche nell’ordito urbanistico), e così impercettibilmente misteriosa, per certi aspetti inquietante? Domande insensate, ovviamente, come tutte quelle che interrogano sulle alternative possibili a quello che è davvero accaduto.
Certo è che a Torino, più che in altri luoghi, si percepisce l’ambiguità fra una dimensione regolare, quieta, ordinata e l’altro da tutto ciò. Il sotterraneo, il crepuscolo, il mistero.
Secondo una leggenda, nel sottosuolo di Torino vi sarebbero tre grotte magiche dotate di speciali poteri. Nella terza e più segreta di queste grotte sarebbe addirittura nascosta la pietra filosofale – la sostanza magica del sogno alchemico, capace di trasformare in oro i metalli vili, di conferire onniscienza e lunga vita.
La città è considerata, dagli esperti di esoterismo, una delle punte del triangolo di magia nera con Londra e San Francisco e una delle punte del triangolo di magia bianca con Praga e Lione. Sempre i medesimi esperti sostengono che i poteri magici di Torino deriverebbero da due poli energetici (qualunque cosa significhi), uno positivo in piazza Vittorio, uno negativo in piazza Statuto. Si potrebbe andare avanti a lungo con una miriade di storie su maghi, streghe, parapsicologi e ciarlatani.
L’idea però, comunque la si pensi sulla magia, è che le cose più interessanti di Torino sono quelle meno visibili. Che suscitano l’impressione che la città abbia un’attitudine alla sottrazione, all’understatement, alla sobrietà metodica. Alle sorprese destinate solo a chi ha voglia di cercare e di osservare.
Prendiamo l’architettura. L’edificio più famoso di Torino, simbolo della città, è la Mole Antonelliana, così chiamata dal nome del progettista, l’ingegner Antonelli. Pensata come edificio di culto ebraico ma mai adibita a questo uso, fu per molti anni – fino al 1908 – il più alto fabbricato in muratura del mondo. Un’opera imponente ma, per me, non la più interessante fra quelle progettate dal suo ideatore. Nel 1840 Antonelli realizzò un piccolo fabbricato cui sarebbe stato dato il nome di “fetta di polenta”, per la forma triangolare e per il colore giallo dei prospetti esterni. L’edificio fu realizzato su un piccolo appezzamento triangolare, per una specie di scommessa architettonica. Erano fallite infatti le trattative per ampliare l’area di costruzione con l’acquisto di terreni adiacenti e Antonelli volle dimostrare di essere comunque capace di realizzare il palazzo, sfruttando l’altezza piuttosto che la superficie. Realizzò così uno spaccato volumetrico su base triangolare, con stanze triangolari e addirittura arredi triangolari. Andate a vedere questa costruzione davvero fuori del comune: si trova nel quartiere Vanchiglia, pare che anche molti torinesi non la conoscano e, come si dice, vale il viaggio, anche se solo da una zona all’altra della città.
***Chiedo al mio amico Jacopo Rosatelli, assessore alle Politiche sociali, casa, diritti e pari opportunità del Comune di Torino, di suggerirmi qualche posto da visitare. Qualche posto che non sia scontato, che dia un’idea di Torino fuori dagli schemi convenzionali. Senza troppe esitazioni lui mi risponde: «Vai a vedere il Distretto Barolo, che non c’entra nulla con il vino. Non c’è nessun posto così in Italia, e forse in Europa. E poi vai a visitare le Case di Quartiere».
Il Distretto Barolo nasce nel 1823 su iniziativa della marchesa Giulia di Barolo e su patente regia di Carlo Felice, come casa rifugio per «donne e zitelle che furono per la loro condotta giudicate colpevoli ma ravvedute». In sostanza: ex carcerate e giovani prostitute. Negli anni (anzi nei secoli: nel 2023 si festeggia il duecentesimo compleanno), le attività dell’istituzione creata dalla marchesa si moltiplicano fino ad oggi: il Distretto sociale Barolo è un vero e proprio ecosistema composto di quattordici edifici in cui operano centinaia di volontari e che garantisce servizi, assistenza, solidarietà a decine di migliaia di persone ogni anno. Diseredati, a volte gli ultimi fra gli ultimi, persone che, diversamente, sarebbero dimenticate da tutti.
Mi accompagnano a visitarlo Anna Poggi, professoressa di diritto costituzionale e componente del consiglio di amministrazione, suo marito volontario nel Distretto e Rosa Capozza, dirigente dell’ufficio tecnico. Girando fra i diversi edifici con le più varie destinazioni (ambulatori, servizi sociali, strutture di co-housing, comunità per tossicodipendenti che nessuno è mai riuscito a disintossicare, case per ospitare i familiari di malati oncologici gravi e molto altro) c’è una cosa che mi colpisce più di tutte: la misurata – molto misurata, decisamente torinese – ma ben percepibile allegria dei miei accompagnatori. L’allegria èuna cosa che da un po’ di tempo noto sempre di più (probabilmente perché ne sono alla ricerca) nelle persone che fanno del bene. Una cosa cui non riesco a non attribuire un significato politico oltre che etico.
Al Distretto Barolo ci vanno a lavorare come volontari – e fanno di tutto – ex sindaci, ex presidenti di Regione, ex sovrintendenti del Teatro regio. Ci vanno a lavorare gratis, nel loro tempo libero, tanti primari dell’ospedale Molinette e tanti medici e infermieri. Ci sono ben ventotto specializzazioni mediche a garantire l’attuazione di un’idea semplice e sempre utopistica nel nostro Paese: la sanità deve essere libera e gratuita per tutti.
Le Case del Quartiere sono una rete di comunità distribuite sul territorio. Offrono servizi sociali, concerti, esposizioni d’arte, occasioni di incontro, corsi di ogni genere – ammetto che la mia fantasia è stata particolarmente colpita dal “corso di capoeira per anziani”. La capoeira è una disciplina acrobatica brasiliana a cavallo fra le arti marziali e la danza. La versione per anziani, quale che sia, sembra davvero una metafora ben riuscita.
Mi accompagna il direttore della rete Roberto Arnaudo. Sembra un po’ il personaggio di un film neorealista e arrotolandosi una sigaretta dopo l’altra mi spiega che diverse Case del Quartiere hanno trovato sede in quelli che un tempo erano bagni pubblici. Per esempio, a San Salvario, per esempio nel quartiere Barriera di Milano. Proprio qui la comunità ha mantenuto il nome originario – Bagni Pubblici di via Agliè.
Barriera di Milano è un quartiere operaio, proletario, territorio complicato, sede di immigrazioni e di tentativi (alcuni riusciti, altri non ancora) di molte integrazioni.
La direttrice è Erika Mattarella, capelli corti, aria tosta, leggermente strafottente. Il tipo di donna con cui pensi che non convenga litigare; una che te la immagini in un film sulla guerra partigiana, tanto per restare in tema di neorealismo e dintorni. Negli occhi le brilla una misurata indignazione per l’emarginazione e l’ingiustizia con cui deve confrontarsi ogni giorno.
Ai bagni di via Agliè puoi mangiare a prezzi molto onesti – bistrot Acqua Alta – sentire un concerto, guardare una mostra, comprare una creazione del sarto senegalese Malick che prima vendeva i libri di cucina africana davanti alle librerie e in giro per la città e che adesso ha qui il suo laboratorio.
Oppure puoi fare la doccia: euro 1,90 per un turno di mezz’ora. Eh sì, perché in questa casa i bagni pubblici da cui viene il nome, esistono ancora.
Visitando lo spazio in cui centinaia di persone ogni settimana vengono a fare la doccia hai una percezione improvvisa, vertiginosa di universi lontanissimi, di vite che non riesci a immaginare tanto sono diverse dalla tua. Anche se sono lì a due passi, in una grande città dell’Occidente ricco. Donne e uomini che fuggono dalle guerre, dalla miseria, dal clima che cambia e rende i loro Paesi sempre più inospitali, che vivono ammucchiati in alloggi senza nessuno spazio privato e che si comprano al prezzo di un euro e novanta, mezz’ora di privacy e di dignità. Ma anche anziani italiani, che vivono soli e vengono qui a fare la doccia perché hanno paura di farla a casa, col rischio di scivolare e cadere e rimanere immobilizzati senza possibilità di chiedere aiuto.
Mentre Arnaudo e Mattarella continuano a raccontare mi distraggo per qualche istante e in modo del tutto incongruo (o forse: del tutto congruo) mi torna in mente una frase attribuita al grande capo pellerossa Toro Seduto: «Per noi i guerrieri non sono quello che voi intendete. Il guerriero non è chi combatte, il guerriero per noi è chi sacrifica sé stesso per il bene degli altri. È suo compito occuparsi degli anziani, degli indifesi, dei più deboli».